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C’è voglia di Britpop! 1994-2014: il movimento compie 20 anni

Creato il 26 aprile 2014 da Giannig77

Il 2014 è anno di ricorrenze in ambito musicale. Molto si è scritto riguardo l’anniversario della morte di Kurt Cobain, leader degli indimenticabili Nirvana, e d’altronde il peso specifico che quel gruppo, ma direi più nello specifico proprio il suo biondo e tormentato leader, hanno rappresentato per tutto il movimento grunge è stato davvero notevole, se non decisivo.

Per molti addetti ai lavori quel genere musicale, così ibrido tra istanze ribelli, punk e rivoluzionarie, rappresentativo di un reale malessere dei suoi massimi interpreti, e suoni talvolta impregnati di quell’hard rock un po’ classico, fu davvero l’ultimo serio vagito “generazionale”, prima dell’ingresso nella “neo-modernità” fatta di tanta tecnologia, internet, social, talent e chi più ne ha, più ne metta.

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Eppure, coevo seppur distante da esso anni luce, e nato anzi in un primo momento quasi come contraltare, come urgente risposta artistica, 20 anni fa, veniva sancito anche il momento di apice di un altro movimento musicale, altrettanto di impatto sull’epoca e come il grunge, tirando le fila, abbastanza effimero: il cosiddetto “britpop”, di matrice assolutamente inglese, come segnala già il nome.

Britpop che in sè non significava nulla, perchè includeva la radice “brit” e “pop”, il chè poteva significare che inclusi finissero gruppi anche distanti anni luce fra loro, accomunati però, almeno nel periodo di massimo fulgore, tra il ’94 e il ’97 (ebbene sì, direi che il boom del movimento si può incasellare in quel triennio) da un sentire profondo comune, anche da un’estetica di fondo se vogliamo (pur con tutti i distinguo del caso), ma soprattutto dalla voglia, dal desiderio di riappropriarsi delle proprie caratteristiche, dei propri valori, dei costumi che sembravano essere stati brutalmente spazzati via dall’ondata dei gruppi americani.

Lo esemplifica perfettamente questo pensiero, ergendolo a filosofia, il leader dei Blur Damon Albarn in tante interviste dell’epoca e lo ribadisce a gran voce pure nella biografia ufficiale del gruppo “3862 giorni”. D’altronde proprio Albarn, di recente tornato con un interessante progetto a suo nome dai toni malinconici e minimali, era a capo della band più in voga al periodo, e poteva ben fare da portavoce a tante band, essendo passato da diverse fasi prima di giungere al meritato e straripante successo col best seller “Parklife”, uscito nel 1994.

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Ed è divenuto quasi spontaneamente pure quell’imperdibile disco il simbolo stesso del periodo di massimo fulgore del movimento, tanto che all’unanimità si festeggia il ventennale del Britpop, facendo riferimento all’esplosione in classifica del disco in questione, dopo che i Blur nelle precedenti uscite si erano solo timidamente fatti conoscere, ma apparendo meno credibili in ambito “baggy” ai tempi del loro esordio “Leisure” rispetto a band simbolo di “Madchester” come Stone Roses, Charlatans o Happy Mondays, o al contrario troppo in anticipo sui tempi nel ’92 quando partorirono “Modern life is rubbish”, in un momento in cui il britpop appunto non era ancora in auge e imperava la brevissima stagione dello shoegazing caro a band come My Bloody Valentine, Slowdive e Ride.

Nel ’94 invece i semi erano stati gettati, non solo abbondantemente dagli stessi Blur, ma seppur con modalità diverse e con musiche che partivano da altri modelli, anche da gruppi attivi come Suede, Pulp, Auteurs, Manic Street Preachers, persino i Radiohead che col primo disco in realtà fecero proseliti soprattutto in Usa grazie a un inno che paradossalmente spruzzava più di morente grunge che non di frizzante britpop: “Creep”.

Inoltre, esattamente 20 anni fa, gli Oasis che avevano debuttato un anno prima con “Definitely Maybe”, raccolsero i frutti, decollando in classifica e piazzando una serie interminabile di hit nelle charts indie e non solo, spianando la strada a quella rivalità che i media inglesi (su tutti Melody Maker e New Musical Express) fecero poi deflagrare nella “battle of the bands” dell’anno successivo quando l’attesa per l’uscita dei due nuovi singoli anticipatori dei rispettivi album di Blur e Oasis, si fece davvero spasmodica. Sulla scia di un’esposizione clamorosa e di un successo certificato in milioni di copie, con successi mietuti in Europa, le due band fecero da volano a tantissimi altri gruppi che si muovevano su territori filologici molto simili, più che su territori puramente musicali. Gruppi di giovanissimi come Supergrass o Menswe@r fecero il botto in classifica, ma se i primi seppero crescere di album in album, evolvendosi e abbandonando quelle sonorità allegre, super pop, “beatlesiane” della prim’ora fino a diventare una indie rock band con tutti i crismi, i secondi, guidati dall’enigmatico Jonny Dean, non durarono che il tempo dell’esordio “Nuisance”, visto che già la replica, “Hay Tiempo”, è ormai da tempo roba per collezionisti, essendo stato distribuito prevalentemente in Giappone, dove la band aveva un seguito enorme. E che dire di band quali Bluetones che piazzarono ai piani alti almeno due singoli destinati a divenire classici del genere quali “Bluetonic” e “Slight return”? Guidati da una coppia di fratelli, sembrava sin troppo evidente il rimando ai Gallagher. Anche Ocean Colour Scene (per un biennio addirittura superiori in patria sul piano delle vendite agli Oasis), Cast, guidati dall’ex bassista dei mai dimenticati La’s, gli Sleeper e gli Elastica, guidati da due “sex symbol” del movimento, i Verve che esplosero proprio in quel periodo dopo essersi sciolti anni prima, gli Ash, i Marion, i Mansun, i Kula Shaker, persino i Placebo a inizio carriera, gli Shed Seven e i Gene, tanto per citare gruppi tanto diversi gli uni dagli altri, per alcuni anni divennero delle vere star del movimento. Queste band entrarono nel cuore di migliaia di fans, non solo in Inghilterra, ma creando solide basi di sostenitori fedeli nel tempo anche nel resto d’Europa, come ho avuto modo di verificare in occasione di stupende reunion (quella dei già citati Shed Seven, ma anche di gruppi molto meno celebri come Northern Uproar, Geneva o i più primordiali Adorable, già inseriti nel filone “shoegazer”). Se i nomi poi si ampliano come fama e impatto, è inevitabile che anche nei rispettivi concerti di reunion, il numero dei presenti e le dimensioni dell’evento siano più rilevanti: è stato il caso dei fortunati concerti di Pulp, Suede e appunto Blur, chiudendo il cerchio del discorso. A questo punto mancherebbero all’appello gli Oasis che sul piano dei numeri furono certamente il massimo mai raggiunto per un gruppo inglese dai tempi di Beatles e Rolling Stones. Mai come nel loro caso sarebbe una manna dal cielo, considerando il basso profilo intrapreso dai Beady Eye dell’inquieto Liam con alcuni ultimi sodali degli Oasis e il progetto solista di Noel che, seppur non deludente, non ha aggiunto nulla di memorabile al catalogo di canzoni messe a reperto dal brillante autore di Manchester.

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Insomma, nell’aria c’è voglia di Britpop, di recuperare e di mettere ordine all’interno di un periodo che, seppur  breve, dicevamo, ha comunque segnato inesorabilmente i cuori e gli animi di molti appassionati, fermo restando che la musica inglese non si è mai fermata dal produrre band e artisti assolutamente di rilievo anche negli anni a venire (basti pensare che sul finire del decennio e inizio duemila arrivarono Coldplay, Muse, Keane, Kaiser Chiefs, anche se i tempi erano inevitabilmente mutati e così pure le “mode” e il significato originario che stava alla base dell’irruenza e dell’ascesa del britpop).

E sono felice di anticipare che tra i miei vari progetti editoriali ci sarà pure quello di un volume enciclopedico sulla storia del britpop anni ’90, con la raccolta più completa possibile di tutti i gruppi, famosi e meno, seminali o di nicchia, che hanno contributo a rendere unico quel periodo della storia della musica inglese e non solo, con schede singole e tutte le discografie. Sarà un progetto in cui avrò il piacere di coinvolgere un mio carissimo amico giornalista, uno dei massimi esperti in materia (lo scrivo senza timore di smentita), attuale collaboratore tra gli altri della storica rivista Rockerilla, che in quel periodo dedicò tantissimo spazio alle band che prenderò in esame. Sarà stupendo scrivere un libro a quattro mani con colui che da 20 anni – guarda caso – è anche uno dei miei migliori amici (chiudendo con una nota altamente autobiografica, posso dire che sarà persino uno dei miei testimoni di nozze!). Ne riparlerò a tempo debito ovviamente, ma l’idea è più che concreta!

 


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