C’era (quasi) una volta in Liguria (Edizioni Zem)
A cura di Marino Magliani e Achille Maccapani
Postfazione di Marino Magliani
Una raccolta di fiabe liguri, o meglio, di fiabe (quasi) liguri, mi è venuta in mente perché l’editore Senzapatria mi aveva chiesto di curare un libro di quasi fiabe italiane. Inizialmente, il progetto era quello di tornare in Liguria un inverno e dedicarmi all’ascolto. Andare a Badalucco o a Dolcedo, a Triora o Apricale, sulle colline gelide a Savona o nei carruggi pieni di voci di Genova, sul porto di Oneglia oppure, semplicemente, nel carruggio in salita a Prelà dove posseggo un rifugio, e chiedere alla gente di raccontarmi le storie che ascoltavano e ascoltano ancora oggi nelle nottate di vento, assieme ai rumori delle grondaie. E poi raccontarle, cercando una voce il più possibile affine a quella del narratore orale, e magari imbrogliare il lettore, infilare nell’antologia fiabe che avevo ascoltato io da bambino, seduto sulle ginocchia di mia madre, la mattina d’estate, quando il sole dilagava dalla bocca del portico e le mani di lei mi portavano alla bocca le cucchiaiate di una pappa che sapeva di limone e di arancio. Oppure, come scivola via un’anguilla dalle mani, far finta di nulla e scappare inevitabilmente dal recinto di regole che impongono le fiabe, e scrivere io stesso delle quasi fiabe. Oppure – ed è ciò che è successo – chiedere ai narratori che si possono incontrare durante l’inverno: ti piacerebbe scrivere una fiaba ligure per un’antologia? Nel Nel frattempo mi ero letto le fiabe di Calvino e quella bellissima sua raccolta di saggi Sulla fiaba. Ma la cosa bizzarra, e anche una delle più belle, forse quella che speravo, è che man mano che giungevano ad Achille Maccapani e a me i testi, ci si rendeva conto che la purezza della fiaba s’era perduta, scivolata via come l’anguilla, e uno dei primi criteri di lavoro doveva essere quello di raccogliere i testi sotto un altro nome, un titolo che non mentisse, ma indicasse appunto che non si trattava di vere e proprie fiabe, anche se in fondo lo continuavano quasi ad essere. Abbiamo deciso per quel “quasi” tra parentesi. E’ andata così e ora mi piacerebbe poter dire come Calvino: “Ora, il viaggio tra le fiabe è finito, il libro è fatto, scrivo questa prefazione [ questa postfazione che assomiglia molto di più a una prefazione, nel mio caso ] e ne son fuori: riuscirò a rimettere piede sulla terra?” Ma non posso, lo potrei dire se le avessi scritte o trascritte o riscritte come ha fatto Calvino. Io le ho solo lette. E poi, qui da dove sono, la terra, la mia, quella che chiamo terra, ce l’ho lontana, per rimetterci sopra il piede. Vivo sulla sabbia, in un quartiere che di verticalmente ligure non ha proprio nulla. Qui, neanche il mare assomiglia a quello ligure, quello mio, almeno, che dalla mia terra si vede tra i costoni, e che cerco all’attraversare ogni giorno le dune, guidato da odori di alghe, per le rive del Mar del Nord. Per questo, forse, in fondo, se queste fiabe liguri sono prima di tutto fatte per me, non me ne vogliate. Per restituirmi un territorio, non perché mi manca, ma per farmici pensare, direbbe l’Anguilla di pavesiana memoria. Per ricostruire la mia mappa imperiale. Confesso: dopo aver curato una raccolta di quasi fiabe italiane, il desiderio di leggerne di puramente liguri (di bestie e boschi liguri e tetti liguri dal muschio che nasce sulle ardesie e sulle tegole, intorno alle antenne delle televisioni, e carruggi e torrenti e scogliere algose e risacche e uomini e donne e bambini e figure fantastiche di questa regione che assomiglia a un boomerang che promette di tornare ma non torna), non importa se quasi fiabe, ma puramente liguri sì, il desiderio era grande. Non farlo, come sostiene Calvino, sarebbe stato un po’ come: “per chi, girando il mondo, passi davanti a casa sua e trovi l’uscio chiuso.” Ringrazio dunque Achille Maccapani per il lavoro svolto, Giovanni Agnoloni per la sua lettura tolkinieana e i fiabisti e gli illustratori e l’editore con cui abbiamo sognato. E Don Gallo, che attraverso le quasi fiabe liguri sono sicuro riuscirà a far sorridere bambini sofferenti. (I diritti d’autore vanno ai bambini della Comunità di San Benedetto di Santo Domingo ). Siccome a ogni fiaba è legata una tavola, ho scelto anch’io per questa quasi postfazione il lavoro di un’artista. Si chiama Gloria Fava e lavora tra Andora e Torino e una casa in montagna. Si tratta di un incanto notturno, un pesce, stupito forse, come si stupiscono i pesci, che spunta dall’acqua e guarda la grotta dorata e le scogliere nere che mi sembrano, ora che le guardo bene, quelle di un posto che conosco bene, alla foce di un torrente.