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C’era un cinese sul pianerottolo

Creato il 11 marzo 2012 da Lundici @lundici_it

Cosa fareste se China Town arrivasse fino a casa vostra? O meglio, cosa farete quando China Town busserà a casa vostra? A me è successo.

C’era un cinese sul pianerottolo
Nevone passato, ma ancora qualche sbuffo di neve minaccioso. Freddo intenso. Sacchetti della spesa in mano, gradino dopo gradino, saliamo verso il tepore domestico. Il meritato premio dopo una dura giornata di lavoro seduti davanti a un PC, inframmezzata da caffè e rapide puntate su Facebook. Il piccolo saltella allegramente su per le scale, pensa che presto rivedrà i giocattoli da cui si è separato in mattinata.

Affrontiamo l’ultima rampa, parliamo di qualcosa, forse di cosa si mangerà a cena, ma lei si interrompe per cacciare un urlo di spavento. Nella luce fioca del pianerottolo dell’ultimo piano, davanti al nostro portone, c’è una figura sconosciuta. Cerco di mettere a fuoco, sia la vista che la situazione inattesa. L’uomo è seduto sul pavimento, avrà una quarantina d’anni, forse qualcuno in più di me. Asiatico. Quasi certamente cinese.

Sono stanco per la giornata e per le scale, psicologicamente pronto al relax, assolutamente impreparato ad un imprevisto sulla soglia domestica. Il mio cervello comincia a sparare impulsi, l’adrenalina si avvia per la sua strada, senza troppa fretta.
Le sensazioni si accavallano. La prima a partire è l’istinto di protezione atavico. Il piccoletto ha avvertito la tensione del padre (e anche l’urlo della madre) e guarda la scena incerto.

Bruce Lee

Bruce Lee

Cerco di razionalizzare. Un cinese sul pianerottolo è un pericolo? Non ancora. Lo guardo, ha la faccia mite, imbarazzata, spaesata, forse disperata, e la disperazione non è mai un buon viatico per i rapporti sociali. Del resto, al momento non sto considerando di invitarlo a cena.
“Scusi, ma cosa fa qui lei?” attacco io borghesemente.

“亲爱的朋友,你觉得我可以做你的登陆?” risponde lui. Non sa una parola d’italiano.
Sorride.

Vuole tranquillizzarmi, indica la porta di casa mia, fa cenno a noi di entrare, di non preoccuparci per lui. Congiunge le mani e le mette vicino all’orecchio, come se fossero il suo guanciale. Dormirà lì stanotte, noi non dobbiamo preoccuparci.

Sì, non ci preoccupereremo, entreremo in casa, mangeremo la nostra calda cena abbondante, guarderemo un po’ di televisione e andremo sotto le coperte, mentre lui starà lì, sdraiato sul pavimento, con la sua giacca a vento e il suo sacchetto di plastica.
I pensieri si accavallano.

Nell’ordine s’insinuano nel mio cervello (a) un Gesù Cristo che dice “Avevo fame e non mi avete dato da mangiare”; (b) quattro poliziotti armati di manganello e incazzati neri per i novantadue gradini appena fatti; (c) uno studente Erasmus che si sente cittadino del mondo e immagina una cena con racconti di un viaggio trascontinentale (forse nel cassone di un TIR); (d) l’intervento di vicini di casa saggi e capaci di prendere decisioni giuste e rapide; (e) un’orda di cinesi che raggiungono l’amico e occupano la mia casa; (f)…

Non posso andare avanti con l’alfabeto. La mia famiglia si aspetta che risolva la situazione, non dovrei essere immobile con la bocca aperta.
Del resto, l’orientale sull’uscio non rientra nel mio bagaglio di esperienze di vita.

“Non puoi dormire qua…” comincio. Mio figlio mi sta guardando, sta memorizzando: qualunque cosa farò per lui sarà la “cosa giusta”. Però l’attacco della mia frase a me sembra già poco giusto. E quindi continuo “…perché di notte fa freddo”.

Che sentenza assurda. Certo che fa freddo sul pianerottolo. Sicuramente meno freddo del -5 previsto per la nottata, certamente più freddo dei 20 gradi del mio termostato.
Invitarlo a cena e dargli un divano però è fuori discussione. Magari è uno della Triade, forse sta fuggendo da un regolamento di conti. Entrerà in casa, vedrà la nostra ricca libreria, lo stereo, il televisore a 32 pollici, tirerà fuori una catena a nove sezioni e i nostri pezzi diventeranno pietanze in vari ristoranti cinesi.

Lui continua a sorridere, è imbarazzato, non mi vuole a disagio, mi incita ad entrare e a dimenticarmi della sua presenza. Lui sta benissimo, solo in un paese straniero di cui non conosce la lingua, pronto a dormire su un pianerottolo nemmeno pulitissimo.
Potrei mandarlo a dormire al piano di sotto, forse. Ma di tutti i condomini, proprio io dovevo risolvere questa delicata situazione internazionale? Potrebbe pensarci l’ispettore Coliandro, posso chiamare una volante, il mio piccoletto si divertirebbe un mondo a vedere le divise e l’azione.

Non conosco bene l’antropologia criminale asiatica, ma per me questo ha la faccia di un uomo a posto, povero forse, disperato, ma a posto. Non mi va di immaginarmelo picchiato in Questura con i giornali bagnati per non lasciare segni (chissà dove l’ho sentita questa…) e comunque la mia coscienza sta già schiarendosi la voce… “Avevo sete e non mi avete dato da bere“.
Ecco, ho trovato il modo per guadagnare tempo e distrarre la mia coscienza.

Apriamo la porta, facendo attenzione a non fargli vedere l’appartamento ben arredato, ci guardiamo tra noi, il pargolo sembra quello con le idee più chiare: “Io quello non lo voglio qua”.
“Ma poverino, ha freddo, non ha la casa, non sa dove dormire…”
Intanto sua madre sta preparando le cibarie da portare all’ospite del pianerottolo. Una merendina confezionata e un succo di frutta di marca.

Riapriamo la porta, la luce delle scale è spenta, lui è lì seduto al buio. Quando lo illuminiamo nuovamente sembra contrariato dalla nuova interazione. Sperava fosse finita, di aver guadagnato il suo giaciglio. Vede che gli porgiamo la sua merenda da scuola materna, sorride e afferra rapidamente, appoggia vicino a lui succhino e brioche, ricomincia a gesticolare per rispedirci dentro.

Ubbidiamo, ma ci sentiamo ridicoli. La mia coscienza sta facendo il rapporto tra il costo dei miei sacchetti della spesa e il valore della generosa donazione alimentare.
“Cosa ci fa quello con una merendina? Diamogli da mangiare qualcosa di più sostanzioso” e corriamo a tagliare il pane appena comprato e a riempirlo di prosciutto.
Il mio cosmopolitismo vacilla (“I cinesi lo mangiano il prosciutto?”) e comincio a sciorinare frasi aperte da negazioni (“Non possiamo invitarlo a cena”, “Non può dormire nel pianerottolo”…)
Riapriamo la porta, arrivano nuovi viveri, il cinese è sempre al buio.

Questa volta non è sorpreso della nostra nuova apparizione, ha capito che non sappiamo che pesci prendere, ci trova anche un po’ strani, forse.
Accoglie con piacere i panini, ci ringrazia vistosamente. Lui non chiede nulla, non chiede di entrare, non chiede da bere (ma gli diamo anche la bottiglia d’acqua), non chiede di usare il bagno. Per fortuna, perchè noi in casa non lo vogliamo.

A questo punto scatta la mossa per mettere a letto, se non lui, almeno la nostra coscienza. Ecco il portafoglio, ecco la banconota.
“Mangi pure con calma” inizio, sempre rigorosamente rivolgendomi in terza persona politically correct con uno che non capisce una parola “Però poi vada a dormire in albergo, perchè qui fa freddo”.

Ecco, questa sentenza supera anche l’assurdità di quella precedente. Forse il cinese prenderà la banconota, ringrazierà, si avvierà fischiettando verso un vicino albergo, dove porgerà i propri documenti perfettamente in regola e riuscirà a pagarsi una stanza ad un prezzo stracciato, visto che la nostra banconota non apre le porte del Grand Hotel.
Lui però prende i soldi e li mette con attenzione nel portafoglio. Ha un portafoglio, la cosa mi stupisce. E’ sempre più imbarazzato (per noi o per lui?), ma ha capito.

“我吃三明治,我离开”, si accompagna con i gesti, mangerà e se ne andrà.
Torniamo in casa, chiudiamo la porta, cominciamo a commentare tra noi, ridendo nervosamente ed esageratamente della situazione imprevista. Mio figlio mi chiede perchè abbiamo dato il nostro pane allo sconosciuto, io gli racconto qualche storia alla San Francesco, ma non so se sono convincente. Potevamo dargli un pasto caldo, offrirgli il bagno, almeno, penso. Mi viene in mente la scena finale di “Schindler’s List”, con il protagonista in lacrime perchè dopo aver salvato mille ebrei con i suoi soldi, si vergogna di non averne salvati di più vendendo la sua macchina. Il bimbo comincia a preoccuparsi, è abituato ad un padre più stabile e sicuro di sé.

Mando un sms al mio unico vicino di pianerottolo “Cinese sul pianerottolo, mangia un panino e se ne va” immaginandomi con un sorriso la sua reazione. Cominciamo a mangiare anche noi, anche se l’appetito non è il massimo e la coscienza non dorme del tutto.
Ogni tanto mi avvicino alla porta e origlio, sento il sacchetto di plastica, è ancora lì. Penso a cosa fare se non se ne va, mi chiama il vicino sul telefono, gli spiego, lui apre la porta, io no, ma non sento voci. Dopo un po’ apro anch’io, il campo è libero, il cinese è stato di parola, ha mangiato e se n’è andato, non ha lasciato che un paio di briciole, ha portato via la carta delle merendine, non ha suonato per salutare.

Clint in Gran Torino

Clint in "Gran Torino"

Situazione risolta, almeno quella pratica. Il cervello continua a lavorare.
Cosa ci faceva un cinese sul mio pianerottolo? E se fosse stato un criminale pericoloso? Ma dove andrà a dormire? Sul pianerottolo di un altro condominio? O morirà di freddo ai giardini? O verrà freddato in un regolamento di conti appena girato l’angolo? O tornerà domani con altri quattro amici per svaligiarci la casa? O si è infilato nel sottotetto attraverso la botola in bella vista nel soffitto del pianerottolo?

Mi affido a Google, cerco “cinese bologna”, elimino i ristoranti, mi restano un omicidio tra cinesi e un latitante a Bologna qualche giorno prima. Ho fatto bene a mandarlo via, forse era un sant’uomo, ma prima di tutto devo difendere la mia famiglia, mi dico.
Del resto i cinesi sono tanti, 1,3 miliardi, ci sta che uno capiti sul tuo pianerottolo.
Ci stiamo finalmente rilassando.

Accendo la televisione ed ecco Clint Eastwood in “Gran Torino”.


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