Magazine Lavoro
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C’era un odore che riguardava quasi tutta la Mirafiori: odore di pece che saldava tra loro le mattonelle di legno del pavimento delle officine. Questo era l’unica cosa che era comune. Poi per ogni realtà c’era la sua specificità. L’odore di uova marce derivante dall’acqua emulsiva, si associa alle lavorazioni alle transfer dove si lavoravano prodotti in alluminio». È un brano tratto da una testimonianza di Gianni Marchetto, operaio Fiat. Descrive la realtà della fabbrica in anni lontani, realtà modificata anche per le proposte e le lotte di operai come lui. È una delle tante testimonianze raccolte in un sito davvero prezioso: www.mirafiori-accordielotte.org. È un’esemplare cronistoria che parte dagli anni 40 per arrivare ad oggi, fatta di testi, documenti, analisi, fotografie, filmati. Con alcuni «pezzi» curiosi. Come quello che vede Giuliano Ferrara, allora dirigente comunista, che, con addosso una ben visibile giacca bianca, guida un corteo operaio verso il comizio di Enrico Berlinguer. Era il 1980, l’anno della cocente sconfitta sindacale alla Fiat. È da quei giorni, forse, che inizia il declino del movimento sindacale.
È il tema che fa da sfondo alla grande quantità di materiale raccolto: «Perché abbiamo vinto, perché abbiamo perso». Scrivono gli autori di questa iniziativa voluta da ex dirigenti sindacali di casa Cgil ma anche Cisl (Toni Ferigo, Paolo Franco, Gianni Marchetto, Piero Pessa, Cesare Cosi): «Vogliamo aprire, su questo sito, intanto per questi anni, uno spazio per una riflessione aperta a tutti e libera, sulle principali ragioni che hanno determinato, nell’autunno caldo e nella prima parte degli anni 70, straordinarie conquiste del movimento dei lavoratori. Convinti che, capire perché e come abbiamo vinto, ci aiuterà poi anche a capire meglio perché abbiamo perso e anche a discutere come tutto ciò può essere utile all’azione di oggi». È interessante notare come al primo posto del successo operaio è segnalata «la cultura della contrattazione» e la «spinta unitaria». Un approdo dovuto, per molti, all’insegnamento di Trentin, Pugno, Pace, Garavini, Foa, dal «confronto tra diverse tradizioni e culture sindacali» dalla consapevolezza che «la realtà dei paesi socialisti non poteva essere il nostro modello». Altri motivi dei successi in quella stagione: la spinta al cambiamento in Europa e nel mondo; la situazione economica favorevole; la spinta unitaria e la elezione dei delegati. Con esperienze spesso non apprezzate dai vertici confederali: «Contrarie la Cisl e la Uil, assai tiepida la Cgil. Sprezzante (e un po’ stupido) lo slogan di Lotta Continua: Il nostro delegato è il corteo! Drastico il giudizio di Pino Ferraris, allora segretario del Psiup di Torino, che accusava i metalmeccanici di vergognoso cedimento per aver trasformato i delegati in organismo contrattuale, piuttosto che nei soviet per la rivoluzione socialista».
Le ragioni della sconfitta passano dalla impetuosa crisi economica: «Sono cadute certezze nella testa dei lavoratori e delegati. Il sindacato e la sinistra non hanno dimostrato una cultura capace di intervenire nel merito dei processi… Siamo stati costretti sulla difensiva ed è cominciata una divisione tra chi era contrario a prescindere e chi invece era favorevole comunque alle proposte padronali». E ancora: «Non siamo stati capaci di costruire con i lavoratori, piattaforme efficaci e credibili, sia nelle fabbriche, che soprattutto nel paese, per affrontare i grandi processi di ristrutturazione finanziaria e produttiva». Decisivo poi il blocco del processo di unità sindacale. Forse si poteva evitare dicono gli autori, si poteva giocare una partita diversa. Così si è «appannata sino a scomparire quella cultura della contrattazione che era stata uno degli elementi di forza della fase di crescita del movimento». E, certo, ha contato l’atteggiamento del padronato che «non ha mai saputo fare sino in fondo la scelta di nuove relazioni industriali», nonché la strategia della tensione sviluppata a partire dal ’69 con Piazza Fontana «e che ha trovato un implicito sostegno ed un avallo di fatto nel terrorismo delle brigate rosse».
Davvero numerose le testimonianze. Tra queste quelle di uomini del passato come Emilio Pugno, ma anche di Vittorio Valletta e poi Adriano Serafino, Bruno Fernex, Sergio Bologna, Piero Mollo, il prete operaio Carlo Demichelis, Luigi Sartirano, Claudio Sabattini, Felice Celestini, Giovanni Destefanis e molti altri. Impossibile citarli tutti. C’è anche, a proposito di quel corteo guidato da Giuliano Ferrara, Liberato Norcia, delegato della Fim-Cisl che ha scritto un libro che riporta come sottotitolo: «Quello che ho chiesto trent’anni fa all’onorevole Berlinguer e quello che chiederei oggi all’ingegner Sergio Marchionne». Norcia nel 1980 era il delegato che aveva posto al segretario del Pci la fatidica domanda su come si sarebbe comportato quel partito nel caso di un’occupazione operaia. E Berlinguer aveva risposto che sarebbe stato accanto agli operai. Oggi, racconta Norcia, Sergio Marchionne «pone le condizioni di fare nuovi investimenti e rimanere con le produzioni in Italia solo se i sindacati firmano un accordo che debella tutti i contratti conquistati con sangue e sudore dal 1969 ad oggi». Cosicché il delegato Fim pone a Marchionne un dubbio: «E se la storia si ripetesse?»
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