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C’era una volta il grande cinema italiano #8. Bellissima.

Creato il 02 settembre 2011 da Fabry2010

C’era una volta il grande cinema italiano #8. Bellissima.Dopo la ripresa del campionato di calcio, l’elezione di Miss Italia è certamente l’evento più significativo del mese di settembre. Quindi, come non parlare del capolavoro di Visconti sui concorsi di bellezza ante litteram?
Nel 1951, dopo una pausa dal cinema per dedicarsi al teatro, Luchino Visconti torna al cinema realizzando questo suo terzo film, Bellissima.
Il film sembra costruito intorno alla “diva” Anna Magnani, alla quale Visconti aveva dovuto rinunciare nel suo lavoro precedente. Ecco come il regista stesso, in un’intervista ad un giornale dell’epoca, sintetizza la trama:

Ha inteso di fare un film di ambiente o di personaggi?
Un film su un personaggio. Si tratta in sostanza della storia di una donna, o meglio di una crisi: una madre che ha dovuto rinunciare a certe segrete aspirazioni piccolo borghesi, tenta di realizzarle attraverso la figlia. Poi si convince che, se un miglioramento si può raggiungere, è in tutt’altra direzione. E alla fine del film ritorna a casa «pulita» come è partita. Con la consapevolezza di aver amato male la sua bambina e con in più con l’amarezza per certe pratiche attraverso le quali è stata costretta a passare per arrivare a un mondo che credeva meraviglioso, e che in sostanza non era che deplorevole
.
La crisi denunciata non investe solo gli eventi individuali, il film in un certo senso decreta la fine del neorealismo: “è quasi un raccontino, un filmetto da esile trama, diretto da un regista di polso”, scriveva Edoardo Bruno, critico cinematografico.

C’era una volta il grande cinema italiano #8. Bellissima.
Se in Ladri di biciclette l’odissea era quella del piccolo Bruno e di suo padre, qui vediamo una bambina di cinque anni, Maria, trascinata dall’energica madre per Roma e Cinecittà. Così ne parla Corrado Alvaro:
Finora non era mai accaduto nella nostra letteratura di vedere così chiaramente il rapporto tra genitori e bambini, i figli come pegno di un avvenire migliore, come rivincita di una condizione sociale indistinta. Non c’è un istante in questo film in cui le parole, gli sguardi, le premure, le tenere antipatie e i furibondi trasporti della madre cessino di creare questo personaggio infantile
Il film è una complessa e scoperta operazione metalinguistica sul mondo del cinema.
Uno speaker radiofonico, interpretato da Corrado che interpreta se stesso, annuncia che la “Stella film” cerca una bambina di sei- otto anni, per dare volto alla protagonista della nuova pellicola del famoso regista Alessandro Blasetti, che interpreta anche lui se stesso.
In campo lungo vediamo una folla di donne che accompagnano le figlie nel grande cantiere di Cinecittà. Maddalena, ovvero Anna Magnani (l’unica donna vestita di nero), cerca sua figlia che è scappata.
È andata a vedere una grande vasca e si è sporcata il vestito. Si tratta di una delle poche occasioni in cui viene rappresentata la bambina per quello che è, ovvero una bimbetta di cinque anni, e non sei come vuole Blasetti, o sette come dichiara la mamma.
La madre prima la schiaffeggia (“io te pijerebbe a schiaffi”), poi l’abbraccia, preoccupata per il vestitino rovinato e per il provino.
C’era una volta il grande cinema italiano #8. Bellissima.

Le madri sono tutte agguerrite e determinate a coronare il loro sogno di una figlioletta diva.
Maddalena, convinta che la sua sia la bambina più bella di tutte, passa avanti alle altre donne che protestano.
Maria è remissiva e docile, non si ribella alla madre, non esprime opinioni o volontà come farebbe qualsiasi bambina della sua età nella medesima situazione.
La bambina diviene specchio della madre, quando le pettina i capelli e le dice: «Coi capelli indietro, come tua madre: come sei bella, come sei bella!».Ed il film è pieno di specchi. Maddalena, mentre si mette gli orecchini, rivolgendosi alla propria immagine che si riflette sia nello specchio di fronte sia in quello in basso, dice: «Recitare. In fondo che è recità? Se io mo’ me credessi d’esse n’antra, se facessi finta d’esse n’antra, ecco che recito».
Come dire che Visconti mette in bocca alla popolana romana, in maniera ingenua, un motivo psicanalitico estremamente delicato, quello dell’alterità oltre a quello della “fase dello specchio”.
Fattasi scudo delle virtù della maternità, Maddalena al grido «non è mai troppo l’amore per i figli» destruttura la figlia a cui non permette di essere se stessa e le nega di essere una bambina della sua età.
La costringe ad improbabili lezioni di recitazione e la obbliga a lezioni di danza, dove una maestra arcigna la obbliga alla sbarra ed al motto “si balla col cervello e non coi piedi” implicitamente mette in dubbio l’intelligenza della creaturina.
Spartaco è escluso dal rapporto che lega madre e figlia, viene relegato in un angolo dell’appartamento, non è lui che prende le decisioni. Il suo ruolo di marito è usurpato da quello della figlia, «È con lei che esci la sera?», chiede a Maddalena che rincasa tardi.
Il padre si accorge che Maria è stanca e le offre l’opportunità di uscire l’indomani per andare a prendere un gelato, ma la piccola, per non contrariare la madre, risponde che deve andare a “lezione”.
Maddalena è innamorata della sua creatura o forse più di se stessa per “quel considerarla uno strumento inerte per realizzare un sogno quasi inconfessabile (l’aver voluto essere attrice e non averlo neppure tentato).
Il disincanto porta Maddalena a prendere coscienza dello statuto di finzione del cinema e a capire che è un mondo deformante, in cui l’identità si può perdere anziché affermarsi e rinforzarsi.
Nel finale si riappropria della sua identità di madre e moglie. Non rinuncia al cinema, ma ne capisce il carattere di finzione e sogno («..coso ..Burt..Burt Lancaster: quant’è simpatico, quant’è simpatico!») ed accompagnata dalla musica dell’ “Elisir D’amore” di Donizetti si abbandona tra le braccia del marito, amore ritrovato.
Si vede in piano americano Maria addormentata nel suo lettino, il carrello avanza sulla bimba, che finalmente da oggetto reietto riacquista il suo candore ed il suo simbolo di frutto dell’amore.
La musica si alza di tono e con una dissolvenza in chiusura appare la scritta “fine”.



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