Lezioni condivise 79 – Rapporti tra lingua e cultura
Quanto accade per la formazione delle persone avviene anche per la lingua, che varia in base alle culture con le quali interferisce e esse si esprimono attraverso la lingua locale, sia essa alloglotta, dialetto o vernacolo. Questo principio sostanziale è soggetto tuttavia a molte variabili, pensiamo all’imposizione di un dominio, di una cultura e di una lingua, dunque alle vicende storiche più disparate di alcuni popoli; ci sono situazioni estreme in cui delle lingue si sono estinte nel silenzio o nell’impotenza, nella negligenza o nell’ignoranza.
E’ la cultura popolare a modellare la lingua, la massa di persone che parlano e comunicano; il volgare alla fine prevale sulla lingua curiale e burocratica. E’ vero, oggi c’è la scuola, ci sono i mass media, ma hanno un po’ perso la loro “spinta propulsiva”, oggi che va ancora tanto lo slang brianzolo e i giornalisti parlano romanesco, con modalità più kitsch che culturali. E’ arduo districarsi in questa caotica babele ove sovente si confonde il genuino con il verosimile.
I bisogni del popolo modellano l’idioma, ne costituiscono i tipi, generano le differenziazioni semantiche, rendendo impossibili le traduzioni letterali con idiomi di culture materiali differenti.
Le pluralità lessicali sono indicative dell’importanza in quella cultura dell’oggetto da designare, gli atlanti linguistici sono un buono strumento anche per rilevare ciò, hanno dunque una valenza anche antropologica, storica e culturale.
Il pane è certamente un elemento fondamentale dell’alimentazione e della tradizione cultuale della Sardegna, infatti le varietà di pane e dunque le rispettive denominazioni, non hanno eguali nel mondo romanzo.
Uno stesso termine può designare diverse tipologie in diversi territori e viceversa una voce diversa può indicare lo stesso oggetto.
Alla Carta da musica, dell’italiano regionale di Sardegna, corrispondono su pani carasau, carasatu, sa pillonca, su pistoccu, su pan’e fresa, su póddine, fino al pani gutiau.
In ogni famiglia in passato aveva luogo almeno una panificazione settimanale. Il prodotto circolava a livello parentale e non c’era problema di varietà di linguaggio. Ora, con la piccola produzione industriale, vi è invece l’esigenza della denominazione unica che identifichi le diverse tipologie di pane, anche se potremo facilmente osservare che non è proprio così e non accade solo in Sardegna, visto che ad esempio il “cornetto” romano a Bologna lo chiamano “brioche” (!), la rosetta, michetta e via dicendo.
Il civraxu (pani de Seddori) in italiano regionale in su Cab’ e susu, viene chiamato o spianata e ha, stante la diffusione regionale un’infinità di varianti: chiàgliu, chiàlgiu, chiarju, chiarzu, chivalzu, chivarju, chivarzu, civàrgiu, crivalzu, crivaxu, crivazu, colacola, fruferedhu. Un riferimento italiano può essere il cruschèllo, ma solo riguardo alla qualità del grano, non per lavorazione e forma.
Sulla lavorazione del grano e la produzione del pane si potrebbe fare poesia, scrivere romanzi di alta letteratura, dovrò limitarmi invece ad essere il più possibile sintetico.
Dalla macinazione de su trigu (grano) si separano quattro parti di crusca/farina mediante setacciatura: prima si separa su póddini (crusca) più grosso dalla farina, successivamente si ottengono con sadatzus (setacci) più fini, su sceti, la farina talmente leggera che vola (con la quale si fa il pane fine omonimo) e sa sìmbula (semola) che dà origine al cocoi, pane croccante; quel che rimane sul setaccio è su civraxu ed è una farra (farina) meno pregiata che dà origine al pane omonimo.
La fama del civraxu in Campidano ha ormai superato quello della farina che gli dà il nome, pertanto indica una forma di pane tondeggiante, non piatta, largo in media 30 cm, la cui farina non viene lavorata e pesa fino anche a tre kg.
Mentre il civraxu ha la sua tipica forma di costone collinare, su cocoi (pasta dura) cambia spesso forma ed è caratterizzato dai pitzicorrus croccanti (protuberanze puntute) di ampiezza variabile. Questo tipo di pane ispira la fantasia dei panificatori e se ne fanno di diverse tipologie e per varie occasioni: a tzichi (a forma di pulcino), a lóriga (circolare), cun ou (con uovo), a folla de fa (a fava), pintau, froriu, cocòi de Pasca, cocoiedhu afollitau (tutto pitzicorrus), stampau in mesu, de pitzus, in figura de pipia o angiulu. Talvolta il cocoi, contiene il corpo in sceti, specie a Pasqua, ma Sceti viene definito un altro tipo di pane fine, di farina di prima scelta, che solitamente ha la forma di una grossa farfalla, lungo intorno a 25 cm e alto circa 10 cm., morbido. A volte le denominazioni si confondono con il cocoi e altri nomi, boledu, isete, in riferimento al fatto che si tratta della farina che vola mentre si setaccia o macina.
Un altro tipo di pane piuttosto diffuso in Sardegna è sa lada, pane morbido e fine, lavorato come il civraxu, stesso tipo di farina e lavorazione, la forma è quella di una baguette tondeggiante: si trovano sa lada a corpo unico, piuda, lúcida, stampada, lada cun casu, cun ollu, cun gerdas, ladixedha de parada, mustatzolu, costedha, agliola.
Vengono fatte anche con la forma del panino per antonomasia, ma piuttosto consistenti o anche con pezzature piccole farcite in vario modo.
Il gran numero di varianti deriva dalla vita agro/pastorale prevalentemente praticata in Sardegna fino a tempi ancora vicini a noi, sia per la grande consumazione di pane, sia per le scarse vie di comunicazione e dunque di interazione tra la gran massa di gente, alla conformazione del territorio che rende meno accessibili alcune zone, alle conseguenti diverse ondate e tipo di latinizzazione, alla presenza di diversi sostrati nelle varianti del sardo, al fenomeno di risardizzazione dei prestiti, una serie di variabili incalcolabili che hanno prodotto la lingua sarda di oggi, che in una situazione socio-economica mutata fa dei passi da gigante verso una koinè, tra le due o quattro varianti principali, con la missione per tutti della salvaguardia dei particolarismi grammaticali e lessicali. (segue…)
(Linguistica sarda – 21.2.1997) MP