Ne il capitale monopolstico la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto viene definitivamente accantonata con la motivazione che essa, valevole in regime di concorrenza, risulta invece invalidata dallo sviluppo monopolistico del capitalismo. Di qui la necessità di sostituirla, appunto, con l’ipotesi del sottoconsumo che peraltro Sweezy integra ammettendo l’intervento di fattori “antagonistici” capaci, almeno in parte, di compensare lo squilibrio tra offerta e domanda dei beni attraverso l’assorbimento del surplus prodotto, riuscendo così ad assicurare una ripresa dell’espansione economica, o quantomeno il contenimento del rischio di una depressione cronica e del ristagno irreversibile. Tra questi fattori Sweezy indica, tra i più importanti, le spese militari, la pubblicità, gli sprechi, gli investimenti pubblici, la spesa sociale.
Quanto all’interpretazione generale che Sweezy e Baran propongono del sistema capitalistico, è da dire che essa è fortemente influenzata dal fatto che essi guardano alla versione più avanzata, quale quella statunitense, caratterizzata ormai dal dominio pressoché incontrastato delle grandi corporazioni monopolistiche. Di qui la loro insistenza, da un lato nel mettere in rilievo la razionalizzazione che un siffatto sistema induce nnella produzione, sottraendola al libero mercato e sottoponendola a una gestione scientificamente organizzata, dall’altro nel sottolineare, però, che sotto questa razionalità si nasconde una fondamentale irrazionalità complessiva, messa in evidenza dalla dissipazione di una parte non irrilevante della ricchezza prodotta e dell’incombere del ristagno. Ciononostante, gli autori del Capitale Monopolitistico si dicono convinti del fatto che, limitando lo sguardo alla società statunitense, <<la prospettiva di un’efficace azione rivoluzionaria per il sistema sia esigua>>. Il proletariato industriale, titolare secondo il marxismo dell’iniziativa rivoluzionaria, appare sostanzialmente integrato nel sistema: “Gli operai dell’industria sono una minoranza sempre più esigua della classe lavoratrice americana e i loro nuclei organizzati dell’industria e i loro nuclei organizzati nell’industria di base si sono in larga misura integrati nel sistema come consumatori e sono diventati ideologicamente condizionati dalla società”(1).
Innegabile che il sistema produca una massa di nuovi oppressi: “i disoccupati e gli intoccabili, i lavoratori agricoli emigrati, gli abitanti dei ghetti delle grandi città, gli studenti che hanno finito le scuole, gli anziani che vivono con la misera pensione di vecchiaia, in una parola gli esclusi, quelli che per il loro limitato potere di acquisto sono incapaci di fruire delle soddisfazioni del consumo, quali che esse siano.”(2). Si tratta però di soggetti sociali che: “malgrado il loro numero impressionante, sono troppo eterogenei, troppo sparpagliati e frazionati per costituire una forza coerente nella società. E l’oligarchia, mediante sussidi, ed elargizioni, sa come tenerli divisi ed impedire che diventino un sottoproletariato di miserabili affamati”(3).
Ma sarebbe un errore concludere che, dunque, le strade della rivoluzione sono ormai chiuse: il capitalismo produce nuovi possibili suoi affossatori fuori dalle mura delle opulente centrali metropolitane, nella periferia sfruttata del mondo. E’ nella natura del capitalismo di essere un sistema globale che tende ad estendere il proprio dominio su tutto il mondo dividendosi in centro – i paesi sviluppati del “Nord” del mondo – nei quali si concentra l’accumulazione dei capitali e il più alto tasso di consumi, e in una periferia – il “Sud” del mondo – , terra di dominio e di sfruttamento da parte delle “metropoli” capitalistiche costituita com’è di “decine di colonie, neocolonie e semicolonie condannate a rimanere nella loro degradante condizione di sottosviluppo e di miseria. Per esse, l’unica strada per andare avanti porta direttamente fuori dal sistema capitalistico”(4). In questa dicotomia del sistema capitalistico mondiale, vanno, dunque, maturando le condizioni di una rivoluzione socialista destinata, questa volta, ad assumere proporzioni mondiali.
(1) P.M Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino 1972
(2) P.A Baran e P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino 1968
(3) P.A Baran e P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino 1968
(4) P.A Baran e P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino 1968
Tratto da Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Volume 1 Bruno Mondadori Editore, Milano 2002