Anna Lombroso per il Simplicissimus
Cominciamo col dire che a “loro” non piace il nome: Caffè della Pace.
E lo credo, sono in guerra contro lavoro, speranza, aspettative, sogni, solidarietà, amicizia, affetti, diritti, bellezza.
E poi non piacciono loro i luoghi dove si ragiona insieme, si parla, ci si scambiano confidenze bevendo una bevanda calda mentre fuori piove, dove ci si guarda e poi si attacca discorso e magari ci si innamora, dove si legge aspettando qualcuno, dove si ascoltano le chiacchiere dei vicini e ci si riconosce. Come non piacciono loro le piazze, i posti della socialità, i passeggi di paese, i giardinetti con le panchine per tutti: preferiscono i centri commerciali, il loro effetto notte di rutilanti luci artificiali, i vigilantes davanti alle vetrine del lusso, l’incessante musica di fondo che copre le voci e induce effetti confusionali propizi ad incauti acquisti. E dove il “fuori” dai tornelli, dai cancelli, dalle muraglie è lo squallore, i monumenti sono le pompe di benzina, il paesaggio è fatto di gru vicine o remote, premessa di altre cattedrali dello shopping, di altri mausolei della perentoria volgarità. Alle fabbriche preferiscono l’archeologia industriale dove commemorare il lavoro, festeggiando precarietà, incertezza, ricatto e dove officiare i riti dell’iniquità, della disuguaglianza, della superiorità.
E alle chiacchiere dei ragazzi seduti ai tavolini a raccontarsi piccole domestiche utopie, grandi speranze, fiduciose illusioni o candide rabbie, preferiscono i raduni, le adunate dove tutte le facce si confondono nel ritratto sfuocato di una massa informe senza idee e senza amore, dove tutte le urla diventano un berciare bestiale, dove si sbrigliano gli istinti più biechi: sopraffazione, razzismo, ignoranza, arroganza, dove convergono e si rafforzano i veleni della xenofobia, del risentimento, della vigliaccheria, come sta succedendo oggi a Milano. Come succede in certe periferie, artatamente senza lampioni, volutamente senza piazze, scientemente senza alberi e senza panchine, intenzionalmente senza tram e bus che ti portino nella vecchia città a incontrare gli altri in modo che gli uni smettano di vergognarsi della povertà e gli altri di aver paura di chi è diverso, perché più povero, più disperato, vita nuda senza documenti, senza tetto, senza cittadinanza, colpevole di irregolarità e condannato comunque a trasgredire le regole.
Eh si, lo chiudono il Caffè della Pace, nella città dove chiudono teatri, cinema, botteghe artigianali, circoli, sezioni di partito, centri di accoglienza. Gestori e dipendenti del Caffè si sono incatenati simbolicamente al loro locale, per chiedere aiuto alle istituzioni nazionali e al sindaco e scongiurare la possibile trasformazione in un albergo a 5 stelle a partire da gennaio. “Loro”, quelli che sfrattano, sono il Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell’Anima, proprietario dello stabile, non per questo più misericordioso e comprensivo dei Benetton che hanno lasciato quell’orrendo buco nero a via del Corso, come un’orbita vuota, al posto dell’antico caffè Aragno. E sono a rischio 25 famiglie e un posto che fa parte della storia di Roma da 50 anni.
Si sprofonda anche così nella barbarie, quando si cancellano i luoghi della memoria per indurre a un ubbidiente oblio di antichi riscatto, per convincerci che solo la rimozione del passato può concedere un’esistenza senza responsabilità, quindi senza sbagli, senza scelte, senza pesi se non quello della condanna alla fatica, per sopravvivere in una zona grigia paziente, assoggettata, subordinata, solitaria.
Non pensate che adirarsi oggi per la chiusura di un caffè sia un esercizio per anime belle, per nostalgici, per signorine Felicite e nonne Speranze. Nell’epoca in cui la politica non era professionalizzata, quando c’era un popolo che rivendicava il legittimo diritto a criticare, a opporsi, a ribellarsi, i caffè e le osterie furono ad un tempo scuole di formazione di un pensiero comune, stoà di confronto, palestre di addestramento per una militanza, sedi di produzione dell’azione pubblica, per carbonari, antifascisti, anarchici, cuori ribelli. E in tempi di eclissi conformista della libertà creativa, della cultura laica, sono stati la risposta al bisogno di confrontarsi, litigare, ridere con e contro gli altri, sedi di aggregazione delle speranze, del ribellismo, dell’ansia di affrancamento di giovani arrivati dalla provincia in cerca di fortuna, di belle ragazze in cerca di scrittura, di scrittori in cerca di editori, di poeti avvolti nel paletot per quel freddo che viene dal sentirsi estranei in ogni luogo salvo davanti a quel tavolino.
I paesi si diluiscono nelle grandi e squallide aree metropolitane, le città si corrompono in angosciose bidonville, le periferie si stemperano in inconsolabili lager, si vietano le piazze o le si irridono, si chiudono i luoghi dell’amicizia. Ma non è più tempo di nascondersi nelle tane e nelle caverne. Diventiamo lupi, loro hanno imparato a vivere e difendersi in branco.