Perché ho deciso di aderire all’appello delle Donne Calabresi in Rete e al sit-in del 9 novembre davanti al palazzo del Consiglio regionale per chiedere le dimissioni di un’intera classe dirigente. “La Calabria che non ci sta”, tra chi si muove e chi si nasconde
Sono dovuta tornare a Reggio, per comprendere quanto si possa amare questa città. Anche quando le nuvole minacciano pioggia, anche quando il vento trascina fin qui il freddo del nord. Anche quando sono chiari i segni di un’estate finita, di un autunno che impone scarpe chiuse, maniche lunghe, ma che è mite e clemente come sanno essere solo alcuni posti benedetti del nostro Belpaese.
In Sila è nevicato. In Piemonte ci si è svegliati con il termometro fermo sullo zero, a New York si contano i morti di un ciclone che, pur declassato, ha abbattuto la grande mela. A Reggio si passeggia in maniche di camicia, guardando il cielo per capire se arriverà pioggia, la Sicilia appena conquistata dall’indifferenza elettorale, chiacchierando sul corso dei futuri sviluppi.
Ieri il consiglio regionale, tra mille inciuci e le solite figuracce, ha approvato la legge per sostenere la partecipazione al voto dei cittadini calabresi all’estero, sabato il sindaco sciolto, Demetrio Arena, ha annunciato, oltre alla propria candidatura, il ricorso al Tar per il provvedimento che ha eletto la “sua città” come primo capoluogo di provincia sciolto per mafia, domani si attendono i nuovi provvedimenti del commissario Vincenzo Panico nella gestione dell’amministrazione comunale.
E Reggio vive, come sempre, tra passeggiate, caffè, anticipazioni e previsioni.
Mi hanno chiesto in molti le ragioni del mio schierarmi apertamente, pubblicamente, con le donne calabresi in rete che stanno raccogliendo adesioni all’appello “la Calabria che non ci sta”.
Mi hanno chiesto non solo perché ho firmato, perché ci ho messo la faccia, ma anche se venerdì prossimo, 9 novembre, sarò davvero là, davanti all’astronave (per chi non abita a Reggio è il nome con cui viene identificato Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale), tra striscioni e megafono, a partire dalle 15, per chiedere le dimissioni di Scopelliti, della sua Giunta e dei consiglieri tutti, di maggioranza e di opposizione. Mi hanno chiesto che c’azzecco io, piemontese residente a Roma, con queste faccende calabre.
Mi hanno chiesto perché odio il governatore a tal punto da volergli togliere la poltrona da sotto il suo lato bi.
Non ho risposto. Non lo ritengo necessario.
A parte questa cosa dell’odio. Non odio “Peppe”. Per odiarlo avrei dovuto amarlo, prima. Lo conosco da prima ancora che la sua carriera politica esplodesse. Mi era persino simpatico. Neppure ora mi è antipatico. Ma non sopporto la supponenza del suo modo di intendere la politica, l’arroganza di questa nuova classe dirigente (non solo calabra, per carità) che si estende in tutti i meandri dell’apparato, partendo dagli enti locali e arrivando persino al Coni, in un crescendo di maleducazione istituzionale e acredine personale che tutto è, fuorché politica.
Non odio Scopelliti, ma odio il suo modo personalistico di aggredire e cercare di annientare chiunque non sia allineato con lui. Che non è solo suo, non è solo della sua area politica. Penso ad altri esponenti di punta dell’opposizione, altra grande assente. Penso ai tanti altri che avrebbero potuto esercitare pressioni reali per dare qualche chance a questa regione, ma che l’hanno dimenticata ogni volta in cui hanno allacciato le cinture di sicurezza sul volo che li portava nella capitale, a rappresentarne le istanze.
Eppure ho sempre creduto che questa terra ce la potesse fare.
Vivo la Calabria, vivo in Calabria da ormai tredici anni. Mi sono sempre opposta a chi sosteneva che non c’era speranza, portando gli innumerevoli esempi di buonavita di cui ho raccolto gli esempi più significativi, con Alessandro Russo, in “senza targa”. Citavo Alvaro e la sua disperazione nell’arrivare al punto di credere che l’onestà fosse inutile come la dimostrazione più palese del fatto che la società sana fosse numericamente superiore, e avesse semplicemente bisogno di strumenti per uscire allo scoperto.
In questi giorni, per la prima volta, ho assorbito una paura simile alla consapevolezza che potrebbero avere ragione loro. Che forse davvero questa terra non ha più chance. Forse ha ragione Roberto Gallullo, che da tempo scoperchia il pentolone putrido di questa deriva calabra, pur certo che sia tutto inutile. Forse ha ragione Mario Congiusta, che continua a urlare le proprie – le nostre – ragioni con gli angoli della bocca che guardano verso il basso, sottolineando, muti, che non esistono cure per questa malattia. L’indifferenza non si cura. Ancora meno la capacità di comprendere realmente cosa significhi bene comune, stato sociale, condivisione.
L’appello scritto da Denise Celentano e Doriana Righini, perfetta sintesi dell’umore comune della maggioranza di Calabria, interpretando le linee delle DCR, null’altro è se non la sintesi di ciò che mi sento ripetere – e io stessa ripeto – da sempre. Eppure. Eppure, a fronte di sottoscrizioni eccellenti giunte da ogni parte d’Italia, a fronte di dichiarazioni di intenti propositivi da parte di tutti, nessun partito ha pensato di far proprio l’appello. Escluse le adesioni singole, ovviamente. La chiamiamo casta da tempo: non c’è da meravigliarsi. Infatti l’obiettivo di aggregazione non ha mai guardato ai partiti, le cui logiche non ci appartengono da tempo. Ha guardato ai singoli, ai tanti colori di questa Calabria che, se riuscissero a unirsi in un unico vortice, con un unico obiettivo, potrebbero riformare quel bianco di cui abbiamo perso memoria, così avvezzi ai grigi e ai neri in cui “ci annachiamo” da tempo.
Speravo – speravamo – che Reggio avrebbe risposto in massa. Invece Reggio, al momento, sembra assente. Reggio, quella Reggio che in attesa del pronunciamento del governo sullo scioglimento era in fermento, firmava manifesti, si esponeva, oggi “si mmuccia”, si nasconde. A quasi nessuno conviene esporsi. A quasi nessuno conviene “metterci la faccia”, firmare un documento in cui ci si schiera palesemente contro. Ci sono i finanziamenti pubblici. Ci sono le promesse. Ci sono le attese. “Scindi e falla tu”, scendi e fallo tu. Io adesso non posso.
Sono dovuta tornare a Reggio, per comprendere quanto si possa amare e, contemporaneamente, odiare questa città. [sciroccoNEWS]
Filed under: articoli pubblicati, cercando un orizzonte, lo sdegno