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Calarsi nel pozzo e nemmeno un grazie

Da Marcofre

La povertà linguistica di tanta narrativa non è solo conseguenza di una scarsa frequentazione dei libri. Certo, anche questo ha il suo peso. Però mi è anche capitato di leggere più di una volta delle scritture che “sembrano” in ordine. Sono talmente in ordine che hanno perfino ottenuto l’avallo di una pubblicazione; da parte di piccole case editrici oneste e determinate.
Cosa c’è che non va allora?

Capisco che il mio giudizio è prossimo allo zero, e alcuni potrebbero credere che scrivo così perché alla mia veneranda età nessun editore ha mai pubblicato qualcosa con il mio nome e cognome. Di solito questo deficit linguistico è figlio anche di un altro grave peccato. Chi scrive dovrebbe avere uno sguardo, dei sensi differenti. Come dicono tutti o quasi, lo scrittore vede cose che gli altri non vedono, ma non perché costoro siano ciechi. Spesso vedono solo le apparenze e lì si fermano, sono sazi e non hanno bisogno di altro.

Certe scritture muoiono di educazione e buone maniere. No, non affermo che lo scrittore debba scrivere male e riempire le pagine di insulti e parolacce. Però deve consegnare al lettore qualcosa di suo, e questo risultato lo può ottenere solo se prova dei sentimenti per la vita. Siccome molti esordienti non si sono liberati di quanto la scuola ha insegnato loro, proseguono su quella via che non li condurrà da nessuna parte. Cosa ha fatto di così atroce la scuola?

Non ha quasi mai considerato la parola come la leva per cambiare il mondo, per esplorarlo davvero. In fondo, la scrittura è quella faccenda che ti consegna un diploma o una laurea dopo alcuni anni di studio, e tanti saluti. Con quei titoli in tasca, provi a entrare nell’ingranaggio. Se per caso pensi di scrivere, applicherai i sistemi imparati a scuola, ma non andrai lontano. Te ne devi liberare, re-imparare a scrivere e a leggere.

Se devi descrivere un personaggio ma per farlo ricorri a espressioni che non senti, non stai scrivendo. Ma eseguendo un compitino. A scuola riusciresti a strappare la sufficienza, e forse qualcosa di più. Spesso ti rivolgi a persone che sono prodotti di quella scuola, e perciò riceverai degli incoraggiamenti. E l’illusione crescerà. Poi per caso o per volontà il testo finisce nelle mani di qualcuno che sa. Non è detto che abbia lauree, anzi.

E costui fa a pezzi il tuo lavoro.

 “Lei aveva il cuore in festa: l’amava! Era semplicemente la più bella giornata della sua vita, perché la sua vita aveva un senso! Gli uccelli volavano felici, il sole sorrideva e lei non riusciva a non dire a tutti della felicità che aveva dentro il cuore!”

 

Quando non si sente, e nemmeno si è mai cercato di sentire, sfornare frasi del genere è la norma. L’esordiente è sicuro di sentire e vedere quelle cose, ma in realtà è solo lo schiavo felice di una lingua primitiva, piatta e cadavere.

Vedere, sentire sono faccende serie che richiedono determinazione e disciplina. Soprattutto, se non si ha una forte fede nella parola, si useranno mezzi e mezzucci per scrivere. Si ricorrerà sempre e solo a espressioni banali. Che funzionerebbero in parecchie scuole (il loro scopo non è insegnare a scrivere, ma cavarsela), ma nella narrativa no.

La narrativa non significa “cavarsela”. Bensì fissare l’attenzione sulla vita e scoprirne gli strati, le difficoltà. È necessario cioè liberarsi delle apparenze che procedono per frasi fatte, e calarsi dentro il pozzo. Non è un bel lavoro me ne rendo conto. Anche perché pochi sono davvero in grado di apprezzarlo.

Raymond Carver ricordava che i lettori si lamentavano con lui perché nei suoi racconti parlava sempre di disoccupati, alcolizzati, persone alle quali le cose andavano storte, insomma. E non c’era il desiderio di leggere le peripezie di questi falliti.

Ti cali nel pozzo e nemmeno un: “Grazie”.


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