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Perché il mondo non finirà il 21 dicembre 2012
di Greta Fogliani
Oltre allo Tzolk’in, descritto ieri in questo quotidiano, i Maya avevano un altro calendario, che era legato al ciclo delle stagioni e del sole: l’Haab. Etimologicamente, il nome deriva da Ha, acqua, quindi un significato plausibile del termine potrebbe essere “ciò che produce o causa acqua”. Si presume che l’Haab fosse stato utilizzato per la prima volta intorno al 550 a.C., quando l’inizio dell’anno coincideva con il solstizio invernale. Se lo Tzolk’in era il calendario delle cerimonie religiose, l’Haab aveva un valore civile e scandiva il tempo dal punto di vista agricolo.
L’Haab era composto da 365 giorni, come il nostro attuale calendario, ma suddivisi in modo diverso: 18 periodi di 20 giorni ciascuno, chiamati Winal (Winalob al plurale) costituivano i mesi, ciascuno dedicato a una divinità; I cinque giorni rimanenti si chiamavano Wayeb ed erano giorni infausti ma importantissimi, perché tesi alla preparazione delle cerimonie di fine e inizio anno.
I venti giorni che componevano un mese erano numerati dallo 0 al 19. Questo perché il giorno 0 di ogni mese era considerato il giorno di insediamento del nuovo mese, mentre l’inizio effettivo del mese si aveva con il giorno 1. Dunque, per esempio, il giorno 0 Pop, il primo dell’anno, era considerato un giorno di transizione, mentre il mese Pop iniziava ufficialmente con il giorno 1 Pop. Si può paragonare questo concetto con la cerimonia dell’intronizzazione di un sovrano. Il giorno 0 è il momento in cui il re viene incoronato, ma il suo regno vero e proprio inizia dal giorno successivo. Allo stesso modo, ogni mese viene “incoronato” nel giorno 0, ma il suo corso inizia solo con il giorno 1.
Come i vari giorni dello Tzolk’in, tutti i mesi dell’Haab erano caratterizzati da una divinità protettrice e da cerimonie peculiari:
1. Pop era il primo mese dell’anno, ed era all’insegna del rinnovamento, Per questo, tutti gli oggetti d’uso quotidiano venivano cambiati: si sostituivano abiti vecchi con abiti nuovi, mentre altri oggetti, come il vasellame o le stuoie, venivano proprio distrutti. Le divinità connesse con questo mese erano due: il dio giaguaro, rappresentato anche nel glifo del mese, che era inteso come il dio della terra (sia della superficie sia delle profondità del sottosuolo) e Mam, la divinità che simboleggiava l’anno e responsabile dei terremoti.
2. Wo, il secondo mese, era caratterizzato da celebrazioni in onore degli dèi patroni dei sacerdoti. Nella mitologia, il nome di questo mese indicava le rane dei Chac, gli dèi della pioggia, che con il loro gracidio annunciavano imminenti precipitazioni. Il patrono del mese, però, era il giaguaro dell’inframondo.
3. Sip, il nome del terzo mese, etimologicamente significa “un tempo di cielo chiaro”. In questo periodo si svolgevano feste in onore di tre categorie di lavoratori: i cacciatori, i pescatori e i medici. Ognuno di questi gruppi svolgeva riti di purificazione che prevedevano che si dipingessero di azzurro degli strumenti tipici del proprio mestiere e che richiedevano sacrifici di sangue, mediante la pratica di fori o di taglietti nei lobi delle orecchie. Il patrono del mese era una divinità dalle sembianze serpentine, simile a Kukulkan.
4. Sotz’, il quarto mese, è rappresentato da un glifo raffigurante un pipistrello. Effettivamente, nel Popol Vuh si parla di un enorme pipistrello, Camatzotz, che è connesso con la morte. Il patrono di Sotz’ era un pesce, chiamato Xoc.
5. Sek, il quinto mese, aveva come dèi protettori i quattro Bacab, specialmente il Bacab rosso, corrispondente all’est, chiamato Hobnil Bacab. Le cerimonie di questo periodo erano dedicate al dio delle api, insetti importantissimi per la produzione del miele, sostanza che i Maya adoperavano per ottenere l’idromiele. Questo importante alcolico era usato sia per i suoi effetti curativi, sia perché era ritenuto magico a causa delle visioni che ispirava.
6. Xul, il nome del sesto mese, significa letteralmente “piantatoio per il mais”, un attrezzo che si usava per seminare i chicchi di mais. Dunque, questo nome è connesso al concetto di fine e di inizio. Xul, infatti, rappresentava la fine di un anno agricolo e l’inizio di quello nuovo, che si celebrava il giorno 16 Xul nella ricorrenza di Chic Kabanche, dedicata a Kukulkan. Il patrono del mese probabilmente era un dio canino appartenente all’inframondo, come quello raffigurato nel glifo corrispondente.
7. Yaxk’in, termine che designava il settimo mese, deriva dall’unione di Yax, “verde”, “azzurro” e K’in, cioè “giorno” o “sole”. Il significato di questo periodo era connesso con il concetto di inizio e di fondazione. Il patrono del mese era il dio del sole, festeggiato forse in concomitanza con Kukulkan e il fuoco nuovo.
8. Mol, appellativo dell’ottavo mese, derivava da una parola yucateca che significa “raccogliere”, “raggruppare”, ed era rappresentato da un glifo con acqua e giada. In questo mese vi era una festa importante, dedicata a tutte le divinità, celebrata in due modi. Il primo prevedeva che venissero dipinti di azzurro gli oggetti d’uso quotidiano, le porte degli edifici, le scritture sacre, le statue, ecc. e che i ragazzi e le ragazze fossero colpiti per nove volte sul palmo delle mani per diventare abili nel mestiere dei propri genitori. Nell’altra cerimonia alcuni scultori fabbricavano dei simulacri degli dèi da offrire alle varie divinità. Raffigurare gli dèi era un compito rischioso, perché se le divinità non fossero state soddisfatte del lavoro degli scultori, si sarebbero vendicate inviando a questi malattie o morte.
9. Ch’en, nome del nono mese, significa “cenote”, termine che indica delle cavità naturali contenenti acqua tipiche dello Yucatan, considerate dei pozzi sacri. Con Ch’en iniziavano i quattro mesi i cui glifi rimandano alla pioggia e alla tormenta (gli altri erano Yax, Sak e Keh). Il patrono di questo periodo era la luna.
10. Yax, il cui significato è “primo”, “tenero”, “verde”, è il decimo mese dell’Haab. È probabile che il patrono di questo mese fosse il dio del pianeta Venere. Proprio in questo periodo si celebrava la festività di Ocná, dedicata al rinnovamento dei templi di Chac, effettuato mediante la sostituzione degli idoli lignei e dei vasi di terracotta.
11. Sak, undicesimo mese, con tutta probabilità aveva come patrono il dio del mese maya, detto Winal, che veniva raffigurato con una testa di un rettile o di una rana. Nel mese di Sak i cacciatori celebravano una solennità tesa a chiedere perdono agli dèi per il sangue degli animali versato durante la caccia. Ciò dimostra il profondo rispetto che i Maya nutrivano per gli animali. Se questo sentimento di rispetto veniva meno, lo spirito tutelare dell’animale cacciato non avrebbe più concesso il successo nella caccia al sacrilego. Inoltre, presso i Maya vi era una cerimonia di espiazione dopo l’uccisione dell’animale, che obbligava il cacciatore a versare il proprio sangue sulle ferite dell’animale.
12. Keh, il dodicesimo mese, era l’ultimo dei quattro mesi che nel glifo possedevano il segno Kawak, associato con la tempesta. Il patrono di Keh era legato al dio del cielo, mentre il suo glifo rappresenta un cervo.
13. Mak, il tredicesimo mese, significa “fine”, “chiudere”, “coprire” e forse è anche per questo che Thompson ritiene che Mak segni la fine del calendario Tzolk’in. Il patrono del mese è il dio del numero 3, probabilmente una rappresentazione del dio del mais. In questo periodo cadeva la solennità Tupp Kak, celebrata in onore di Itzamna e dei quattro Chac per ottenere delle piogge abbondanti.
14. K’ank’in, nome che deriva da Kan, “giallo” e K’in, “sole”, “giorno”, era il quattordicesimo mese dell’Haab e faceva riferimento al periodo di maturazione del mais. Questo mese era patrocinato da una divinità della terra.
15. Muwan, il quindicesimo mese, aveva lo stesso nome di un uccello associato all’acqua, alle piogge e alle nubi, che altri non era che il patrono di Muwan. Questo mese era dedicato a Ek Chuah, divinità protettrice dei mercanti e del cacao (che veniva usato come moneta in tutta la Mesoamerica) e di Hobnil, il Bacab rosso.
16. Pax, il sedicesimo mese, era patrocinato dal giaguaro o dal puma. Nei venti giorni di Pax si svolgeva la cerimonia di Pacum Chac, in onore del dio Cit Chac Coh, il “padre puma rosso”, in cui il Nacom (il capitano di guerra), era portato nel tempio del dio per assistere alla danza dei guerrieri. Successivamente si celebrava un rito propiziatorio alla vittoria in guerra, dove si offrivano i cuori degli animali a Cit Chac Coh, gettandoli nelle fiamme. La cerimonia si concludeva con un banchetto finale in cui tutti, meno il Nacom, si ubriacavano. Dopo il Pacum Chac, i vari villaggi stabilivano la data delle celebrazioni festive degli ultimi tre mesi dell’anno.
17. K’ayab, diciassettesimo mese dell’Haab, era raffigurato in un glifo rappresentante una testa di pappagallo. Nel Popol Vuh compare una sorta di divinità pappagallo, Vucub K’aquix, che fingeva di essere il sole per ricevere i sacrifici da tutte le creature viventi. Costui fu però punito in seguito da Hunahpú e Ixbalanqué, i gemelli prodigiosi. Il mese era dedicato a una dea della luna crescente, patrona della medicina. K’ayab segnava l’inizio delle celebrazioni che si svolgevano negli ultimi quaranta giorni dell’anno, chiamate Sabacil Than. Nonostante conservassero le pratiche della purificazione, delle danze e dei banchetti, tali festività avevano un carattere privato, poiché si celebravano nella casa di chi le organizzava, ed erano quindi più contenute.
18. Kumk’ú era l’ultimo mese di venti giorni, e la sua chiusura coincideva con la fine del Tun, l’anno di 360 giorni. In questo mese proseguivano le feste del Sabacil Than e il patrono celebrato era il coccodrillo o un essere celeste. Inoltre, l’8 Kumk’ú era considerata la data mitica dell’inizio del calendario Haab.
L’ultimo periodo dell’Haab era chiamato Wayeb ed era composto da soli cinque giorni. Si ritiene che una probabile radice di Wayeb sia Way, cioè “minaccia”, “dramma”. Il significato complessivo però si lega a concetti come “letto da cui ci si alza” o “stanza dalla quale si esce”. Questi cinque giorni avevano una particolarità, segnalata anche dal loro appellativo Xma Baba Kin, ovvero “giorni senza nome”. I giorni del Wayeb non avevano un nome perché dovevano cancellare le influenze dei giorni precedenti dall’anno venturo, tanto che anche i giorni dello Tzolk’in che transitavano in questo periodo dell’anno perdevano il proprio carattere. Questa neutralità rendeva impossibile prevedere gli effetti del mondo trascendente sulla natura e sull’uomo e proprio per questo i cinque giorni del Wayeb erano considerati nefasti e pericolosi. Perciò, i Maya li passavano svolgendo meno attività possibili: stavano chiusi in casa, non si lavavano né pettinavano, digiunavano e si astenevano dai rapporti sessuali. Il Wayeb dunque era un abisso che divideva il tempo vecchio da quello nuovo e che segnava una rottura nel flusso ininterrotto del tempo.
Tuttavia, ricalcando un pensiero tipicamente maya, questa sorte di “morte del tempo” era necessaria per la successiva rinascita. Questo è testimoniato dal fatto che già nei giorni del Wayeb si effettuavano sia le cerimonie di purificazione tipiche di questo periodo, sia i riti propiziatori per l’inizio del nuovo anno. Questi ultimi variavano a seconda del giorno Tzolk’in con cui sarebbe cominciato l’anno nuovo. In ogni caso, però, le celebrazioni consistevano in sacrifici di animali, autosacrifici, banchetti e offerte di cibo agli dèi. Tutto ciò si compiva nella casa prescelta, in cui gli idoli dell’anno vecchio e dell’anno nuovo venivano posti uno di fronte all’altro. Una volta terminati i giorni del Wayeb, l’idolo della divinità protettrice del nuovo anno veniva condotto nel tempio, mentre l’idolo dell’anno vecchio veniva collocato all’ingresso della città. Gli idoli avrebbero conservato la propria posizione per i prossimi 365 giorni.
A questo punto bisogna sottolineare che i giorni Tzolk’in con cui iniziava l’anno potevano essere solo quattro, che all’epoca della conquista spagnola erano: K’an, Muluk, Ix e Kawak. Questi giorni erano contrassegnati da un valore mitologico non indifferente e consentivano di prevedere la qualità dell’anno che stava per iniziare: gli anni K’an erano favorevoli, i Muluk molto favorevoli, mentre gli anni Ix erano negativi, anche se non quanto i Kawak, che erano considerati molto sfavorevoli.
A prescindere dal tipo di anno, però, le degenerazioni erano sempre in agguato. Se in un anno le calamità si facevano particolarmente insistenti, si pregavano delle determinate divinità ausiliarie, affinché accorressero in aiuto della comunità. Naturalmente ogni anno aveva delle specifiche divinità ausiliarie e dei riti relativi, anche cruenti, a seconda del problema che affliggeva gli uomini. I riti di fine anno erano importanti soprattutto per le donne, poiché erano le uniche celebrazioni alle quali potevano assistere e addirittura partecipare con delle danze a loro riservate.
Per la definizione completa di una data i Maya ricorrevano a entrambi i calendari illustrati. Il nome del giorno si componeva dunque del numerale e della denominazione dello Tzolk’in più il numerale e il mese dell’Haab. Diversi studiosi hanno concepito questi due calendari come due ruote di un ingranaggio, di raggio differente, i cui denti si incastrano tra loro per comporre il nome completo di un giorno.
La differenza di lunghezza tra lo Tzolk’in e l’Haab faceva in modo che ogni anno i giorni avessero sempre un nome diverso rispetto all’anno prima. Tuttavia, dopo un certo periodo di tempo, le combinazioni tra la denominazione dello Tzolk’in e dell’Haab tornavano a ripetersi. E questo periodo di tempo era dato dal minimo comune multiplo tra il numero dei giorni dei due calendari: lo Tzolk’in durava 260 giorni, ovvero 5 x 52, mentre l’Haab copriva un periodo di 365 giorni, cioè 5 x 73. Il minimo comune multiplo è dunque 5 x 52 x 73, pari a 18.980 giorni o, se vogliamo esprimere il conto secondo un’unità di misura più comoda, 52 anni.
Gli storici chiamano questo periodo Calendar round, calendario rotondo, proprio perché dopo 52 anni (quindi dopo 52 Haab o 73 Tzolk’in) gli accoppiamenti tra le date Haab e Tzolk’in tornavano a ripetersi.
Oltre a questi cicli, però, ve ne era un altro di fondamentale importanza per la profezia che tanto ha scatenato il panico nel corso di quest’anno. Si tratta del conto lungo, un tipico prodotto culturale dei Maya che contava il tempo trascorso a partire dalla data mitica dell’origine del mondo, che corrispondeva a 4 Ajaw 8 Kumk’ú. Da questo giorno, che possiamo considerare una sorta di anno zero, i Maya hanno iniziato a contare gli anni del conto lungo basandosi su cinque cicli principali:
- K’in, l’unità base del computo del tempo, corrispondeva a un giorno, inteso come l’insieme di notte e dì. I Maya, infatti, concepivano il cammino del sole sotto un duplice aspetto: da una parte vi era un viaggio celeste, compiuto dall’astro nella volta del cielo durante le ore di luce, ma dall’altra vi era un viaggio nelle viscere del sottosuolo, che costituivano la partenza e il ritorno del disco solare nel suo percorso quotidiano. Questa duplice concezione del sole, corrispondente alla divisione della giornata, rispecchia anche l’opposizione tra la fase di fecondazione-generazione e quella di nascita. La generazione, che può essere quella quotidiana del seme di mais o quella mitica dell’uomo, avviene al buio (come per esempio la sepoltura del seme), atmosfera simbolo di morte, ma anche di fecondazione. La nascita segna invece il passaggio dalle tenebre alla luce. Dunque, la parte luminosa del giorno si collocava sotto la protezione delle tredici divinità del cielo, dette Oxlahutikú, mentre la parte buia era patrocinata dalle nove divinità del sottosuolo, i Bolontikú. Il glifo K’in può essere un ritratto del dio sole, posto di profilo, oppure un segno che somiglia a un fiore con quattro petali, simboli dei quattro punti cardinali o dei quattro punti di levata e tramonto del sole nei solstizi invernale ed estivo. Il numerale dei K’in si azzera a 20.
- Winal, periodo dato dalla successione di 20 K’in, cioè 20 giorni. Come si è potuto notare, il 20 nella cultura maya era il numero fondamentale, poiché anche i calcoli venivano effettuati su base vigesimale, a differenza dei nostri che sfruttano la base decimale. Il glifo rappresentante lo Winal è una rana, ma questo periodo simboleggiava anche la luna, poiché in alcune varianti del glifo viene raffigurato proprio questo corpo celeste. Nel conto lungo, il ciclo degli Winal finisce a 18.
- Tun, periodo che, come già accennato, si compone di 360 giorni, è un ciclo Haab senza il Wayeb, ovvero senza i cinque giorni infausti. Dal punto di vista del conto lungo, un Tun era composto da 18 Winal. Questo era l’unico ciclo calendariale che si discostava dalla base vigesimale per raccordare l’aritmetica all’anno solare. L’etimologia della parola Tun può avere significati diversi, che andavano da “pietra”, a “monumento” a “nocciolo di un frutto”. Quello più diffuso in Yucatan è il primo, poiché per Tun si intende una pietra preziosa, una giada. Il glifo del Tun, invece, contiene un segno che si associa con l’acqua, elemento che si connette anche alla giada, come si è già visto per il giorno di Muluk e per il mese di Mol. Nel conto lungo, il ciclo dei Tun si azzera una volta superato il 20.
- K’atun, ciclo di 7.200 giorni, prende nome dall’unione di Kal, “venti”, e Tun; il significato corrisponderebbe dunque a “venti pietre”. Il K’atun era quindi composto da 20 Tun, un periodo di poco meno di 20 anni. Quando finiva un K’atun si tenevano delle cerimonie pubbliche in cui il reggente si trapassava la lingua o il pene e raccoglieva il sangue che ne sgorgava su una carta, che veniva bruciata in onore degli dèi. A conclusione del rito, veniva eretta una stele commemorativa. Il ciclo dei K’atun finisce a 20.
- Bak’tun, il periodo di 144.000 giorni, corrisponde a 20 K’atun, quindi a circa 400 anni (per la precisione 394,3 anni). Letteralmente, il nome significa “quattrocento pietre”, ma il termine in lingua originale è sconosciuto. La definizione di Bak’tun è stata ricavata, come per i cicli più lunghi, dallo yucateco contemporaneo. Il numerale dei Bak’tun si azzera una volta superato il 13.
Questi sono i cicli principali utilizzati nel conto lungo dei Maya, ma in realtà esisterebbero dei cicli ancora più lunghi, sempre costituiti seguendo la base vigesimale: il Pictun, composto da 20 Bak’tun, il Calabtun, formato da 20 Pictun, il Kinchiltun, che corrisponde a 20 Calabtun e infine l’Alautun, che vale 20 Kinchiltun.
I numeri che designano un giorno nel conto lungo fanno però riferimento principalmente ai cinque cicli menzionati in precedenza. La data dell’origine del mondo può essere dunque scritta in questo modo: 0.0.0.0.0, 4 Ajaw 8 Kumk’ú, dove il primo zero a partire da sinistra corrisponde ai Bak’tun, il secondo ai K’atun, il terzo ai Tun, il quarto ai Winal e l’ultimo ai K’in.
Le predizioni che vogliono che la fine del mondo avvenga il 21 dicembre 2012 si basano proprio sui cicli del conto lungo. Quel giorno, infatti, terminerà il tredicesimo Bak’tun (data che si può scrivere sia in questo modo 13.0.0.0.0, sia in questo 0.0.0.0.0), il ciclo che determina la fine di un’era.
La nostra mente occidentale ricollega tutto questo a un’apocalisse, alla fine dell’universo che conosciamo. Tuttavia, se veramente vogliamo capire i Maya, non possiamo fermarci a considerare le cose da una prospettiva occidentale, ma dobbiamo imparare a porci da un altro punto di vista. Quella che la nostra mentalità interpreta come la fine del mondo, per i Maya è solo la fine di un’epoca, la fine di un ciclo al quale ne seguirà un altro. Non bisogna dimenticare, infatti, che per i Maya il tempo era ciclico e il suo corso si poteva rappresentare con una spirale; il tempo, in altre parole, non era una pura ripetizione di fatti già accaduti, ma un progresso verso la perfezione che continuava di era in era.
Ne è una dimostrazione il racconto mitologico della creazione dell’uomo contenuto nel Popol Vuh. In questo mito, l’uomo viene creato in cinque fasi, ognuna delle quali dura 13 Bak’tun. Nelle prime fasi, la creazione dell’uomo si rivela una fallimento, che porta con sé altri tentativi di creazione fino alla definitiva riuscita. Ogni ciclo della creazione, dunque, non preannuncia una fine, ma un continuo progresso del tempo. E, se ricordiamo il concetto di fine secondo il pensiero maya, dovremmo ricordare anche che non si tratta di un epilogo definitivo, ma il punto di partenza di un nuovo inizio. Ciò che per noi dunque rappresenta una fine senza appello, per i Maya è un momento di passaggio da una condizione a un’altra.
In conclusione, i Maya non hanno mai pensato che il mondo sarebbe finito il 21 dicembre 2012. Siamo noi gli artefici veri di questa profezia, prodotto dell’incomprensione tra culture diverse.
Fonti:
- THOMPSON, John Eric Sydney, La civiltà Maya, Einaudi Tascabili Saggi, Torino, 1994;
- ZAFFAGNINI, Gianni, I calendari maya - Oltre le paure della fine, Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL), 2011.
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