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Calvino impuro nella lettura spirituale di Fabrizio Centofanti

Creato il 28 giugno 2011 da Fabry2010

Calvino impuro nella lettura spirituale di Fabrizio Centofanti L’opera letteraria di Italo Calvino è troppo complessa e articolata per essere etichettata come rappresentativa di un modo univoco di intendere la letteratura e il suo rapporto con la vita. Da qui l’insoddisfazione di Fabrizio Centofanti (Italo Calvino. Una trascendenza mancata, Clinamen, Firenze 2011) rispetto a quelle letture che schematizzano il lavoro di Calvino in due fasi tra loro non comunicanti, o che oppongono seccamente i suoi scritti «di carta e d’inchiostro» – come ebbe a dire Carla Benedetti – a quelli «di carne e di sangue» di Pier Paolo Pasolini (la gestazione dello studio di Centofanti risale a prima della pubblicazione del discusso Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998, ma è piuttosto chiaro che Centofanti già allora non avrebbe condiviso l’impostazione oppositiva, antagonista e a tratti manichea del pamphlet della Benedetti). Come scrive Giuseppe Panella nella prefazione al libro appena uscito, «La verità che la pagina di Calvino contiene, infatti, è impura», né più né meno – verrebbe da aggiungere – di quella di un Pasolini, benché con stili, registri e retroterra biografici tra loro molto distanti.
La vicenda letteraria di Calvino si snoda senza dubbio tra gli estremi per certi versi antitetici de Il barone rampante (1957) – il cui realismo illuministico è visibilmente attraversato da un’autentica tensione amorosa – e Le cosmicomiche (1965), a cui seguiranno Ti con zero (1967), La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche (1968), e il riassuntivo Cosmicomiche vecchie e nuove (1984). Tuttavia, agli occhi di Centofanti, sia l’impegno romanzesco della Trilogia degli antenati, sia la forma breve e pseudo-scientifica del racconto – come d’altra parte la poeticità dolente di Marcovaldo (1963), o del conclusivo romanzo anomalo Palomar (1983), e il saggismo delle Lezioni americane (1985) – sono in differente misura le risposte fenomenologicamente variegate a un’unica e medesima inquietudine antropologica. La lettura di Centofanti è spirituale e non ideologica – né tantomeno semiologica – perché riscontra, nella scrittura di Calvino, la reazione di volta in volta mutevole a uno shock fondamentale, vissuto e sofferto: la percezione profonda del caos del mondo, il trasalimento innanzi al vuoto dell’esistenza. Scrivere – nella molteplicità dei suoi esiti, spesso separati da salti di continuità – significa allora ricalibrare incessantemente il rapporto tra la psiche e l’abisso in cui sprofonda la realtà, far guidare il gesto letterario dalla prevalenza ora della pulsione di vita (l’amore), ora della pulsione di morte (l’astrazione) – entrambe ineliminabili e parimenti costitutive dell’essere umano.
Il prospettivismo letterario di Calvino – capace di coniugare «l’acutezza del critico» e «l’estro del poeta» – è uno nel suo motivo di fondo e molteplice nelle sue necessarie manifestazioni fenomeniche, di superficie. Senza dirlo esplicitamente, quasi a non voler tradire apertamente la sua formazione filologica, Centofanti giunge da critico sulla soglia di un tratto neo-platonico, plotiniano, della prosa di Calvino, quantunque declinato lungo la via interioritatis della riformulazione agostiniana. Quell’uno che si trova nel cuore stesso dell’uomo, al pari di un mistero che smuove sotterranei volumi d’angoscia e spaesamento, in Calvino non prende mai il nome di Dio, né di trascendenza, ma resta – in coerenza con le scansioni di una biografia delusa dal comunismo sovietico, eppure non per questo in cerca di consolazioni – un sostantivo vuoto, il punto cieco di un razionalismo consapevole dei propri limiti (come attestano in modo inequivocabile le sottili costruzioni de Le città invisibili, 1972).
L’arco teso dell’intelligenza di Calvino, fatalmente spezzato da un ictus appena prima che questi potesse tenere le sue Norton Lectures all’Università di Harvard, è stato troppo ampio, troppo cosciente, perché non fosse in grado di creare da sé l’antidoto a quel razionalismo narcisistico e compiaciuto, che non di rado è considerato sottendere la presunta freddezza dell’autore italo-cubano. D’altra parte, Centofanti non manca di mettersi sulle tracce, da filologo pervaso dall’istinto del rabdomante, del perdurare del topos amoroso. Affiorato nella passione di Rambaldo per Bradamente (Il barone rampante), l’amore segue un andamento carsico e riemerge nel 1963 nello sguardo pietoso di Amerigo Ormea (La giornata di uno scrutatore), per ricomparire proprio quando meno ce lo si aspetterebbe, in due racconti del 1982 – Sotto il sole giaguaro e Un re in ascolto – sui quali la critica talvolta sorvola, ma su cui Centofanti riporta giustamente l’attenzione. In particolare, è Un re in ascolto a costituire la più efficace metafora della coappartenenza di ragione e s-ragione, volontà geometrica di controllo e deriva onirica, potere e desiderio di felicità. Ritornano, proprio in questo racconto tardo, i motivi che hanno attraversato – anche con violenta varietà d’accento – la produzione letteraria calviniana, e che ugualmente presuppongono, nell’autore, il senso della caducità e della finitezza dell’esistenza, quale primum movens di una scrittura sostanzialmente apocalittica, benché a volte animata da un impeto dei sensi, che poi trascolora e raggela in sofisticate forme difensive, di sottrazione.
Calvino ha sempre presente l’ineluttabilità dell’intreccio di intelletto ed emozione, e sa auscultare, nell’espressione letteraria, gli sconfinamenti dell’uno nell’altra, e viceversa. Centofanti coglie questa sensibilità psicologica dello scrittore, e talvolta pare trarne un insegnamento, un orientamento, per l’ethos della sua stessa missione sacerdotale: «Quando ciò che è irrazionale – la fantasia, il desiderio, l’aggressività – non trova sbocco né sublimazione si verifica la situazione di Cloe, altra città invisibile, dove un’immaginazione sfrenata, ma senza alcun contatto col reale, fa sì che l’apparente castità dei suoi abitanti sia continuamente attraversata da un fermento carnale che provoca una sorta di patologia psichica da inibizione».
Il testo che, secondo il critico, fa da cerniera tra le due tensioni che attraversano l’animo di Calvino, è probabilmente Il Castello dei destini incrociati (1973). La fantasia combinatoria che accompagna la lettura dei tarocchi, in quello scritto non coincide affatto con l’esercizio di uno sterile estetismo, con il divertissement cerebrale di una ragione che insiste autoreferenziale su se stessa: la figura del Matto (l’Orlando furioso), allorché viene messa a testa in giù, finisce per corrispondere con l’immagine iniziatica dell’Impiccato, e solo allora riesce ad alludere a una visione del mondo altra, laterale, maggiormente comprensiva. La dialettica tra il dritto e il rovescio, la mobilità del punto vista, la necessità di uno sguardo capovolto sulla realtà quotidiana, sono esattamente la cifra di un costante sforzo di trascendimento del mondo nel mondo, ovvero di ciò che Centofanti definisce una «trascendenza mancata».
Non v’è in Calvino un Dio a cui rivolgersi, un Padre del quale cercare l’abbraccio salvifico, ma un movimento di apertura all’alterità, che non si fissa su di un oggetto, e resta tutt’al più in contemplazione dell’assenza su cui si dischiude. «Il nocciolo del mondo è vuoto» – scrive Calvino ne Il Castello – «il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è». L’armatura vuota di Agilulfo (Il cavaliere inesistente, 1959) è l’intramontabile icona della fragilità della ragione (i «frammenti d’ordine» di cui parla Centofanti), della sospensione che disgiunge le ipotesi intellettuali e le alternative razionali, le quali a loro volta dovrebbero contenere il divenire della vita, la problematicità del reale.
Dopo la fine del romanzo, ovvero ben oltre l’impossibilità di riprodurre una sintesi coerente di ragione e sentimento – come ancora era stato, almeno a tratti, nella Trilogia – Calvino torna al termine della sua vita, con Palomar, proprio alla forma romanzo, ma per sancirne una volta di più (dopo l’iper-romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979), lo sfondamento, la dilatazione nella sincronia di tutti i possibili, di tutti i gesti mancati, di tutte le trascendenze solo desiderate, pensate, sognate, e quindi incapsulate nell’immanenza (si veda il tema dell’implosione autistica nelle Cosmicomiche).
Il signor Palomar, pertanto, come scrive Enrico Donaggio, non è altro che un «delicato collezionista di aporie» (Il dilemma di Palomar. Alcune riflessioni sul rapporto tra scetticismo e critica, in AA. VV., Ragionevoli dubbi, Carocci, Roma 2001), il quale può solo elevarsi a una perplessità oscillante – con le parole di Calvino – tra un «modello dei modelli» teorico e astratto, e un «paesaggio umano» sfigurato, fratto, impastato di carne e di sangue.
Nelle postume Lezioni americane, non a caso, l’unico modo che questo scetticismo pare avere, per gettarsi a fondo perduto in un mondo finalmente capovolto, in un universo di possibilità effettivamente dischiuse, è quello di lasciarsi alle spalle la nozione di soggetto riflessivo e dubitante, di self.
Oltre di esso, suggerisce Centofanti, al termine dell’arco spezzato dell’intelligenza di Calvino, resta ad accogliere l’io proprio quella trascendenza che l’io non poteva pronunciare, e che per lo più sigilla con il mistero l’avventura umana nella sua insopprimibile impurità.



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