Alle quattro in punto fuori dal bar. Un passo dietro l'altro, rapidi e dolorosi, le scarpe nuove e le ore passate in piedi si fanno sentire, la sciarpa riscalda e avvolge, ora e' importante lasciare il dolore da parte, e correre verso la fermata del tram, per andare a casa, dove possa raggomitolarmi su me stessa e piagnucolare senza parole, senza spiegazioni e giustificazioni. A casa, per tirare fuori la stanchezza e la frustazione, per togliermi queste maledette scarpe e questo maledetto odore di fritto.
Una leggera pioggia illumina tutto di grigio, attraverso il ponte e un ciccione in carrozzella canta a squarciagola, immerso nel suo dolore, una terribile canzone conosciuta, canta con ardore, incurante della pioggia, non chiede spicci, non c'e' nessun cappello o barattolo con qualche moneta timida, perdo qualche secondo in piu' scrutandolo, lo supero continuando a guardarlo, poi velocizzo il passo, il ponte mi sembra lunghissimo, la voce stonata e la musica si allontanano, a un tratto sento la mano maledetta che mi si attorciglia al collo togliendomi il respiro. Chiudo un secondo gli occhi e respiro profondamente senza fermarmi. Respiro. Posso respirare, cerco di concentrarmi su qualcos'altro, e continuo a camminare, ignorando la morsa alla gola.
Schivo turisti asiatici che non si lasciano intimorire dalla pioggia, l'ultimo tratto di strada il tunnel e la fermata, due minuti e passa il tram. Respiro. Tanta voglia di togliermi le scarpe e di una doccia bollente. Trovo posto sul veicolo pubblico, ma alla fermata successiva una vecchietta grassoccia sale, impossibile resistere, le cedo il posto, il tram si riempie, i piedi mi palpitano, sento freddo, e' pieno di gente, e lotto per inalare aria, il problema e' che sono cosi' bassettina, che tutta questa gente mi soffoca.
Penso al ciccione invalido sul ponte e al coinvolgimento che metteva nella sua interpretazione, a occhi chiusi cantava tenendo il microfono appiccicato alla bocca, indifferente alla pioggia, si e' trascinato con la carrozzella, una cassa e un microfono sul ponte piu' romantico di Melbourne, a gridare il suo dolore filtrato con canzoni, cantava per se stesso. Mi dispiace anche di non averlo apprezzato prima, e di non avergli lasciato qualche spiccio. Adoro cantare una di queste canzoni conosciutissime, in inglese, della quale non so le parole e rimedio bonfonchiando sillabe che non formano nessuna parola di senso copiuto in nessun idioma. Mi immagino indietro nel tempo di 15 minuti, gli stessi passi sul ponte, la stessa fitta di dolore ai piedi, lo stesso movimento nel sistemarmi la sciarpa, arrivo sul ponte, e vedo il ciccione che canta strangolando le note, e io che mi metto al suo lato e comincio a cantare con lui [io magari senza microfono..], io stonata come sono accompagno lui stonato quanto me, e entrambi cantiamo sotto una pioggerella fina e delicata, di quelle che senza accorgersi ti inzuppa in pochi minuti.
Avvolta nei miei catartici pensieri liberatori vedo che la vecchietta a cui ho ceduto il posto che mi guarda senza distogliere lo sguardo, e penso che se tornassi indietro il posto non glielo cederei, con il mal di piedi, e la stanchezza che ho, sarebbe lei che dovebbe cedermelo a me!
Scendo dal tram, attraverso la strada e accellero verso la porta di casa, entro nel monolocale, luce oscura, il letto disfatto, mi tolgo le scarpe con un senso di liberazione, mi sfilo la giacca e mi siedo nel letto. La stanza - appartamento che ancora profuma di notte, le coperte e le lenzuola disfatte e fredde, in cucina i piatti da lavare.
Metto una delle mie canzoni preferite, rigorosamente in inglese, alzo il volume e mi butto sotto la doccia bollente, e [patetico ma vero] canto a squarciagola, pensando al ciccione invalido, alla vecchietta dallo sguardo maleducato, ai miei quasi 29 anni, alla vita e a tuttol'universo-mondo che mi accompagna. E canto ... a squarciagola...
Ora respiro..
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