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Capera

Da Antonio

Mobile parrucchiera, antenata napoletana del coiffeur. Il suo era un mestiere duro, fatto di arrampicate per i vicoli e per le scale, esposto alle lamentele di una clientela difficile. Per questi motivi la massima dice che “lo denaro de la capera è denaro che sa de fele”.
Lavorando a domicilio, raccoglieva mille sfoghi, indiscrezioni, notizie sussurrate; prometteva di non riferire ad anima viva, e quasi mai manteneva l’impegno. Così capera diventò – e resta – sinonimo di donna pettegola. Nella raccolta di De Bourcard, Raffaele Mastriani scrisse che: «la capera si chiama ordinariamente Luisella, Giovannina, Carmela; ella veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza pel suo stato; ma in particolar modo il suo capo debbe essere una specia di mostra, di campione, di modello non pur le donna popolane, bensì per quelle di civili condizioni».
Oscar Corona, nel suo libro dedicato agli antichi mestieri, ne cita una famosa, Nannina, orgogliosa dello sfregio lasciatole su una guancia dalla rasoiata dell’amante tradito.
Era previsto l’abbonamento per le clienti fisse. Ferri del mestiere indispensabili: le pinze infuocate per arricciare i buccoli tirabaci. Particolari acconciature erano studiate per le “maeste” – le popolane di riguardo – alla vigilia del pellegrinaggio al santuario irpino di Montevergine, a bordo di carrozze (e poi di auto) infiorate come un altare di matrimonio.



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