Quella di Renzi di entrare a Palazzo Chigi senza passare dal voto è una follia. Lo ripeto in grassetto, cosicché non ci siano dubbi circa cosa penso della questione: è una pura e semplice follia, di un politico che probabilmente sopravvaluta la sua forza e la sua capacità di resistenza agli urti e alle avversità. Prima ancora di questo, com’è ovvio, è un gigantesco voltafaccia rispetto a quanto dichiarato fino a una settimana fa, un fare carta straccia di buona parte del consenso ottenuto al congresso del Partito democratico, snaturandone il messaggio netto e inconfondibile.
Pur essendo d’accordo con le riflessioni di Francesco Costa, sono consapevole del fatto che la capacità di Renzi di dimostrarsi diverso, dal #cambiaverso in su, risiedesse nell’evitare di partecipare a giochi da navigati soloni della politica. Se qualcuno ha “cambiato verso”, guidando un governo frutto di una staffetta che è de facto un accordo di Palazzo, quello è Renzi rispetto al sé stesso delle primarie. E questo punto della vicenda rimane chiaro, limpido e inattaccabile.
Siccome, però, c’è sempre quello più ideologicamente puro, integerrimo e sprezzante della tua condizione di giornalista che ha una posizione politica diversa dalla sua (eccezion fatta per quando ti offri di recensirgli il libercolo in uscita; ché si sa, con la purezza non si mangia) e non vede l’ora di fustigarti di conseguenza, ci tengo a dire che sono il primo a non essere contento della vicenda. Di più: a sentirmi in qualche modo tradito, a credere di non aver destinato le mie idee e le mie speranze di riscatto dello stagnante panorama politico italiano nel posto giusto.
Già che ci siamo, vista la recente gioiosa diffusione dei personaggi sparasentenze come quello di cui sopra, vi racconterò una cosa: col passare del tempo, specie negli ultimi anni, i miei studi, le mie esperienze, la mia comprensione del mondo e le mie inclinazioni intellettuali mi hanno portato a sposare convintamente una serie di concetti-cardine. Usiamo uno di quei paroloni che danno un tono ai pensatori: faticosamente, passo dopo passo e con maturazioni raggiunte spesso in maniera traumatica, mi sono costruito la mia Weltanschauung. Che si chiama, riassumendo, ”sinistra liberale”. Di questa posizione socio-politica, nella mia declinazione specifica di orizzonti, fanno parte il garantismo, la consapevolezza dell’urgenza di una riforma della giustizia del Paese, l’occhio lucido sui meriti e i demeriti dei sindacati, il rifiuto dell’antiberlusconismo usato come unico collante di coalizioni sgangherate e personaggi di dubbio gusto, la fine della chiusura identitaria come discrimine per considerarsi migliori o peggiori, salvi o condannati, santi o colpevoli, in una divisione netta e a priori del mondo.
Tutti questi (e altri) concetti, da qualcosa come un anno e mezzo ho iniziato a vederli distintamente in Matteo Renzi e le sue proposte di rottura rispetto agli schemi concretizzatisi negli ultimi decenni. In questo senso, mi pareva che la sola assenza di vuote accuse al «liberismo» à la Fassina, gli accenni di apertura alla questione giustizia e i richiami ai sindacati fossero già di per sé avvisaglie di cambiamento a cui accordare quel po’ di fiducia, senza per questo diventare ultrà o coprirsi gli occhi di fronte a mancanze ed eventuali contraddizioni. Con questi presupposti ho agito finora, coerentemente con ciò che ho imparato e con ciò che penso, senza mai anteporre nulla ai principi che mi sono trovato in mano crescendo. A oggi, a chi me lo chiedesse direi che alle scorse primarie del Pd ho votato chi ha fatto una promessa che non ha mantenuto, mettendosi in una posizione sbagliata e controproducente. Come si sia arrivati a questo – per i motivi considerati da Francesco Costa oppure no – sono considerazioni importanti, certo, ma secondarie. Perlomeno per il singolo elettore.
Detto questo, mi ritengo libero di cambiare idea in caso i fatti mi sbugiardino, come credo sia opportuno fare per chiunque si consideri una persona dotata di raziocinio, per tutti quelli che non tifano un’idea politica come la squadra del cuore. E trovo tuttavia incredibile che ci siano persone che non aspettano altro che riaffermare per vie traverse la loro presunta superiorità morale, etichettando tifosi a loro piacimento tra chi non gli va ideologicamente a genio; anzi: facendo di chiunque non la pensa come loro un tifoso, uno che si è venduto l’anima, uno che non ha idee e visioni del mondo in cui sperare ma «capitani» da seguire acriticamente. Ché si sa, la purezza di intenti è prerogativa loro, come qualsiasi altra purezza. Personalmente di questi personaggi, la versione sinistrata dei corsivi del Giornale e delle fastidiose vignette di Libero, non ne posso quasi più. Ne ho abbastanza della loro arroganza ignorante, della sicumera con cui vogliono insegnare la coerenza di principi e la libertà pur avendo scelto aprioristicamente dove sta il Bene e dove il Male, cosa si può dire e cosa no, chi è Salvo e chi è Perduto, e non perdendo occasione per riassicurarsi della bontà del loro patto ancestrale, salvo poi cantilenare accuse vuote e autoassolutorie il cui unico fine è sempre farli sentire dalla parte giusta.
Il mio «capitano», che in realtà è soltanto un tizio che fa politica che ha detto cose in cui mi sono riconosciuto, oggi ha lasciato a piedi la squadra, si è comportato da mercenario, ha gettato la fascia dopo aver detto di essere disposto a morire per difenderla. Lo dico da quando è successo e senza alcun problema, anche se con qualche amarezza; osservare e farmi delle opinioni fa parte del mio lavoro. Agli ortodossi del purismo, però, mi tocca far notare che loro avevano già deciso che «il mio capitano» era in realtà un tifoso di un’altra squadra e giocava per trasferirsi, mesi prima che commettesse il suo primo grande errore. Che è una cosa moralmente dubbia e professionalmente degradante, se ci pensate.
Il mio capitano, l’unico, è quello nella foto in alto.
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