Magazine Racconti

Capitolo 8

Da Foscasensi @foscasensi

 
La qualità dell'aria che si posa su un corpo ha moltitudini di sfumature e azioni differenti. Ora è compatta e palpabile, per esempio alla radice delle spalle, ora frulla umidamente nei mulinelli delle narici. E da quest'aria, infirmata dalle resistenze corporali oppure vivida, genera la consistenza della carne umana che ha l'attributo di essere senza cervello e inspiegabilmente carne pensante. Quella sotto i piedi di Luciano era compatta e comprimeva contro la suola come una sfoglia fischiando prima acuto poi grave, ma con un gorgoglio di teiera. Il bosco aveva perso la lucentezza delle ore precedenti con Greta, non c'era quasi nulla che la luna mostrasse a parte il lungo corso di via Ró e lo scheletro di un fienile in cotto e pietre chiare.
Non che questo avesse importanza. Quando scivolò finalmente in casa si accorse che dormivano tutti. Dalla cucina portò in camera una grossa pesca e spiccò la polpa dal nocciolo seduto sul letto. Sistemarsi, questo sì. Di tutto il dolce che aveva succhiato gli restava un nocciolo nel palmo della destra. Lo soppesava come una gemma viscida o come un uovo e improvvisamente ebbe nella bocca, senza adiacenza col resto dei pensieri, la sensazione che gli ebbe lasciato tante volte il formaggio, quando da bambino lo succhiava fuso nel brodo. Lungo la parete della stanza riposava una libreria messa insieme con gli scarti di segheria e due mesi di lavoro. Gli scaffali, disposti a distanze diverse, erano sorretti da staffe laccate di bianco già sporche. Aveva comprato una collezione alla fiera del libro di Genova. Nulla era paragonabile a quei caratteri incisi, le copertine scure dal gran tempo passato al mondo – chissà in quali mani! si domandava Luciano – e quell'aria di competenza che avevano i volumi nella sua camera di operaio quindicenne come fossero un consesso di personaggi universitari. Sfogliandoli aveva scoperto gli ex libris e aveva sospettato che quella fosse la piccola parte di una collezione appartenuta a chissà chi. Avrebbe potuto trattarsi di un vecchio? Un vecchio venerabile, michelangiolesco? O faustiano? Ogni sera passava in rassegna la sua biblioteca, misurava con lo sguardo come i volumi riempissero la superficie della stanza e ne prendeva uno a caso, aprendolo mai del tutto per salvaguardare le cuciture di refe. A quasi sei mesi dall'acquisto (che gli era costato un lungo viaggio in treno e quasi una mensilità del suo stipendio di apprendista metalmeccanico) non aveva letto praticamente nulla, appena l'inizio del Gargantua e una ballata di Coleridge. Le pagine di alcuni volumi, i più cari, si sbriciolavano agli angoli e la carta aveva un colore bruno e i caratteri delle parole erano come un conio al contrario. Chi si era chinato su quelle carte? Immaginava mani da donna conversare su una lunga sigaretta da donna, una capigliatura esasperata come ne hanno gli intellettuali a dispetto del fisico e la progressiva scarnificazione del volto. E una guancia matura, con le pieghe della bocca a significare grosse consapevolezze o illuminazioni, e una pratica commovente del rasoio, che su quella pelle doveva essere se non un affronto quasi una scorticazione. Necessariamente il padrone di una libreria del genere doveva essere morto. Eppure! Come sarebbe stato necessario incontrarlo. Per esempio domandare, a un morto si potranno pure porre questioni cretine, se quella fosse effettivamente la strada giusta, ammesso che ci fosse qualcosa oltre allapresenza che impone il tempo agli uomini, sempre.
E poi, tutto non era forse già deciso? E non si parla della superficialità di una scelta di contingenza, essere o non essere il marito di Greta, studiare o fare il metalmeccanico. Tutte involuzioni di pensiero, tutte increspature di superficie. C'era una realtà tanto più indietro nel tempo, così riccamente declinata da non essere perfino pensabile se non come la particolare consistenza e ritmicità degli umori e della carne di un padre, che un giorno o una notte si è congiunto a una madre, entrambi con corpi vividi e vecchi di millenni, con una loro preparazione alla vita specifica e quasi esasperata. E così, si diceva, entrambi provvisti di un solo modo di andare avanti avevano ceduto al buio ognuno metà del proprio corpo possibile e nel buio era nato un nuovo esistente, deficitario, sì, eppure riuscito, anzi riuscente.
E qui Luciano alzava gli occhi allo specchio. Com'era emozionante l'anatomia ancora verde delle caviglie, più su i polpacci teneramente spiegati sotto la pressione del materasso. E le spalle quasi ornitologiche, il ventaglio di vello aperto sul petto e l'occhio più denso di qualsiasi altra cosa al mondo! Cosa avrebbe detto il suo uomo, il suo studioso, a vederlo su quel letto adolescenziale sazio di se stesso, senza altra fortificazione se non una catasta, del resto risibile, di libri da leggere. Il nuovo esistente, il nuovo fallibile, il nuovo riuscente.
“Hai presente cosa accade  – disse la Possibilità nella forma di studioso dalle mani sottili – Hai presente cosa accade a quella cosa attraversata da un soffio, che s'infiamma e perde sostanza finché non è un'unica luce e un unico calore, e infine l'inghiotte il cielo e non resta più nulla?”
Non ho presente, rispose Luciano, dimmi almeno di che si tratta.
“E cosa importa di cosa si tratta quando in realtà stiamo parlando di te?, disse la Possibilità dalle mani sottili e mentre parlava una sigaretta s'incendiava fra le sue labbra e piombava nel buio.
 
Mentre Luciano pensava o conversava in questo modo lo scosse un colpetto alla finestra. Quando si affacciò una persona lo aspettava dall'altro lato del giardino.
All'inizio non lo riconobbe. Era colpa della camicia fuori taglia e le siepi di oleandro che nascondevano tutto. Ma quando si mosse e l'ebbe chiamato (a bassa voce), capì che si trattava di Marco Stern. Ed era eccitato.
“Presto, Puccinelli, non c'è tempo da perdere”
“Marco – disse Luciano – mi spiegherai...”
Marco si contorse addirittura: “non c'è tempo, non c'è tempo. Salta giù dalla finestra, così come sei. E ringrazia il cielo che non ti ho trovato in mutande.”
“Ma, e i miei genitori...”
“Razza di bestia, ti dico di seguirmi!”
Avendo origini altoatesine Marco Stern spiccava come un vichingo  (banale) nella squadra di operai della MOBAR. Stavolta, mentre camminavano nella scia dei lampioni e Marco non smetteva di toccargli la spalla, con quella camicia chiara, piccolissima per lui, e l'aria da cospiratore, Luciano pensava di avere a che fare con un enorme vecchietto.
“L'ho saputo da Fausto. Dovrai prepararti.”
Luciano annaspava: “Prepararmi a cosa? E poi perché non mi hai telefonato?”
“Pezzo d'asino, telefonarti all'una di notte? Così mi faccio rispondere da tua nonna e le dico: non si preoccupi signora, porto suo nipote a vedere il vecchio Elia che si fa grattare la pancia dalla figlia del lattaio”.
“Rosalinda ha fatto....”
“Sì, sì – Stern era quasi stridulo – alla fine è successo. Ho avvertito gli operai, forse Rodolfo è perfino riuscito a fare qualche foto”.
Corsero per quasi dieci minuti e infine si gettarono in una strada troppo stretta anche per un'utilitaria. Le case ci erano cresciute intorno senza trovare spazio. Ora si aggrappavano al cielo ma avevano piedi marci e minacciavano di sbriciolarsi. Il retro della bottega del lattaio era anch'esso un individuo quasi lebbroso col tetto in lamina d'amianto e muri di bozze.
Luciano e Marco Stern poterono spiare quello che successe da un giardino vicino.
Bisogna dire un fatto. Riguardo la storia di Elia il primo a sapere non era stato Marco Stern. Sarebbe stato facile immaginare un bar, Marco Stern maestosamente seduto, un boccale in pugno. Giocava spesso “a dama”, e scommetteva soldi magnificamente. Cioè con una munificenza quasi medievale. Tirava su una pedina e quando muoveva o perdeva o vinceva. Si aggrappava alla scacchiera, a quei tempi nei bar ne esistevano ancora di legno, e si portava il verdetto dal tavolo alla bocca dimenticando perfino le sue “ragazze”. Se vinceva si manteneva composto. I capelli gli ricadevano sugli occhi. Le mani, strette a pugno, perdevano di saldezza e i muscoli delle gambe erano tesi per tutta l'esagerata lunghezza dei jeans.
Jeans come jean, come Gênes, come Genova. Da Jeans a Genova c'è un salto marittimo e linguistico che sta bene anche sul corpo di Marco Stern. Era venuto dall'Adriatico come una sconfitta. Un giorno era approdato sul molo, solo, e per farsi assumere aveva piegato un tondino davanti al capo-officina.  Da allora era il compagno di lavoro di Luciano Puccinelli e altri sette operai.
Dunque sarebbe stato naturale per Marco Stern essere a conoscenza di Elia che si assenta dall'officina (una spalla che si scuote e il collo della giacca improvvisamente sopra un guscio di carapace, di vecchio carapace e vecchi gomiti), che prende una macchina e scende all'imbocco della via del lattaio.
Ma la conoscenza succede, e cioè accade e viene dopo, ed è sempre intransitiva. Per un movimento che ci riguarda così poco da non avere nemmeno il problema del linguaggio o della forma alla fine la conoscenza arriva con un portato collettivo, senza un oggetto. Piuttosto, come una geografia.
Così era successo per il vecchio Elia. Una persona si era avvicinata al tavolino del bar e aveva carezzato la spalla di Marco Stern. Egli era piegato sulla scacchiera e non ascoltava. La persona aveva qualcosa del ragazzo e del folletto, e insisteva.
“Babalùc! Eclissati, non vedi che sto giocando?”
Il folletto impressionava per le gambe straordinarie e non poteva tenere fermi i capelli, che sventagliavano all'aria di mare.
“Ma voi dovete ascoltarmi – seguitava a dire – c'è una cosa che dovete sapere!”
Marco ormai aveva perso. Gli restavano due pedine in ostaggio di una schiera di nemiche bianche.
Il folletto, accovacciato, teneva una mano sulla sua spalla. Così bianca, sembrava un piccolo pesce o un congegno meccanico.
“Pare che il vecchio Elia si sia chiuso con Rosalinda”, disse rastrellando i capelli con la destra.
Marco Stern balzò in piedi con un'esclamazione di esultanza.
“Se il nostro padrone, che ha sessant'anni – disse abbracciando il folletto – si chiude in uno stanzino con la figlia del lattaio, possano seccarmi le coglie se raggiunge i venti, vale la pena di guardare cosa succede”.
La notte del 5 agosto 1980 una squadra di operai, allertata da Marco Stern, era appostata lungo le pareti della bottega del lattaio.
Ne uscirono un vecchio e una persona piccola. Il vecchio fece tre passi sullo spiazzo e calciò una lattina. La persona piccola era rimasta sulla soglia con le braccia conserte: guardò l'altro grattarsi il di dietro – ne vedeva le pieghe dei gomiti e una piccola gobba, come un carapace, alla base del collo – e quand'egli si voltò fece, impercettibile, un passo indietro. L'altro le rivolse un saluto e s'incamminò.

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