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Capitolo Uno

Da Bartel
Capitolo Uno
Pedalo cosi mi sveglio. Pedalo sul lungomare ancora poco abitato. Il piccolo bar del ragazzo albanese è aperto da un po’. Ci lavorano marito e moglie. Sono giovani, venticinque forse ventisei anni, io ho festeggiato i miei venticinque anni a Seattle. Ma quella era un’altra era geologica , altra gente, non un granché devo dire. Stanotte ho scritto un po’, ora ho bisogno di un caffè, il secondo. Il primo l’ho preparato in silenzio con la moka della tristezza. La chiamiamo cosi in famiglia perché è una moka da due tazze, ma di solito la quantità di caffè preparato basta per una e mezza e te la prepari quando sei da solo. Triste, no? Amico mio , non riesco a togliermi dalla testa i ricordi. Ci vorrebbe un bravo neurochirurgo. “Dove le fa male signor Torre?” “Mah, direi accanto all’amigdala destra , si un po’ più in basso…ecco lì!”. E zac! Rien ne va plus, les jeux sont faits!!! Tutto passato, la bua non c’è più. Magari ! Mi siedo al tavolino freddo e umido, sorrido al moi amico barista che mi fa cenno di aver capito l’ordinazione telepatica che gli ho inviato. Respiro profondamente questa aria inzuppata. Sono un uomo felice. Quasi. Sai amico mio tutta questa pena insensata deriva da Lei. Si lo so non devo pensarci, lo so ma hai mai sentito parlare di subcosciente? Ecco, stanotte ho fatto un sogno. Un bel sogno che mi ha portato un bel regalo:un grumo di tristezza qui in petto  incastrato nel diaframma . Era una pietra aguzza che non mi faceva respirare. Aprire gli occhi è stata una liberazione.  Io e te eravamo  in una grande casa inglese, con un grande scalone in legno scuro, pannelli di legno a ricoprire le pareti. Grandi quadri che non vedevo, ma intuivo. Ricordo grandi cornici dorate, quadri del settecento forse. Tanta gente in smoking, anch’io credo, anche se non mi ricordo l’ultima volta che ne ho indossato uno. Non ricordo tutto, ma all’improvviso lei era là, mi parlava. C’erano anche i miei genitori, forse mi accompagnavano, forse quella casa enorme era la mia, ma non ne sono sicuro. Erano cosi giovani. Lei era appena arrivata, fasciata in un abito rosso, poi bianco , le lunghe braccia magre. Ci siamo salutati, non sentivo la sua voce coperta dal brusio  e tutto  il resto è scomparso. C’eravamo solo noi due. Credo che  mi abbia chiesto della mia vita mentre io non  ho chiesto niente della sua. All’improvviso ci siamo ritrovati in una stanzetta buia. I suoi occhi mi cercavano, tutto il suo corpo mi cercava. L’ho stretta a me con foga, l’ho baciata e trascinata per terra. Ho sentito la sua saliva, il suo sapore in bocca… credimi amico mio, l’ho sentito, non l’ho sognato. Non chiedermi come, ma l’ho sentito.  Nel sogno il sudore mi scendeva lungo la schiena mentre ero abbandonato sotto il suo corpo che si abbandonava sul mio. Mi sono svegliato come se uscissi da una apnea. C’è voluto un  attimo prima di rendermi conto che era un sogno. Angela, la mia Angela respirava piano accanto a me. E’ ancora molto bella nonostante gli anni e suo marito, io. E’ stata una liberazione svegliarsi, poi un dolore. Che brutti scherzi fanno i sogni! L’ombra del barista che mi porta il mio caffè mi riporta su questo lungomare e ai nostri ricordi. Non devo pensare a lei. Ti ricordi quando andammo a vedere gli sterminati campi di riso della penisola di Bosu? E il monte Mihara sull’isola di Oshima? E il pranzo con i pescatori?

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