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Superclassico della "spy-story" in forte odore di comedy-romance, "Sciarada" è un film ricco di svirgolate geniali, caratterizzato da un intreccio per nulla prevedibile e scoppiettante, in cui domina un raffinatissimo e autocompiaciuto elemento "weird" (si veda la scena della doccia) e un altrettanto solido copione narrativo corale, ben retto soprattutto dallo charme magnetico dei due protagonisti, un'Audrey Hepburn impeccabile e un Cary Grant affascinante come poche altre volte. Dirige Stanley Donen, che insieme è una sorpresa e una conferma. Ammorbidisce la sua carica musical, ma non perde la forza rutilante di riprese complesse e di un montaggio veloce, valori tecnici di alto spessore.
"Sciarada" è senza dubbio la vetta massima toccata dalla "spy-story" nella sua versione hollywoodiana. Ma, nel dare una definzione sintetica, forse si potrebbe perdere di vista il vero merito della pellicola: l'aver saputo modellare la componente mistery-thriller con un canovaccio che sfida realismo e verosimiglianza, e cade, ripetutamente, nella commedia, nella "lotta dei sessi", nella sagacità della battuta e in una semi-parodia del romanticismo vecchia maniera. Il tutto, dentro la "tradizione" del cinema classico, con qualche "pazzia" contenutistica non da poco (d'altronde siamo già nel 1963). Ecco, "Sciarada" è una surreale storia di intrighi, aperta tanto al "colpo di scena" a raffica, quanto alla demitizzazione della sottospecie seriosa che aveva caricato, da anni, il noir, di una componente espressiva troppo conturbante. Perciò, Donen, che ha girato grandi musical, riesce a ribaltare l'ottica del genere nell'immaginario comune e a sostituire alla densità delle passioni carnali (anche represse) e non una lettura tipicamente "fashion-victim", brillante, in cui la battuta al fulmicotone, sin dall'introduzione neutra, e la stravaganza dei personaggi, sono caratteri che elaborano la componente comica, quasi optando per una parodia asciutta di un'intera cinematografia trascorsa, ora sosituita da un cinema d'intrattenimento brillante e sagace nel comprendere le esigenze di un diverso pubblico. Non a caso, chiama a rapporto due stelle/icone del "cinema patinato" come Cary Grant e Audrey Hepburn e ne tira fuori due interpretazioni perfette per il genere, abbastanze asettiche per lasciare la carica conturbante agli altri co-protagonisti (e Matthau non può che essere il "buono apparente"), ma anche abbastanze ingenue e "svalvolate" per dar vita a due personaggi altrettanto fuori dai tipici modelli del genere e affini alla commedia brillante di prima fascia. In questa sintesi stralunata e geniale, si mischiano tantissimi elementi di ulteriore qualità e merito va dato soprattutto ad un grande scrittore di copioni come Peter Stone. Si susseguono, infatti, come in una girandola, sequenze su sequenze girate con perizia memorabile e con capacità di inventiva altrettanto notevole, coadiuvate da una sceneggiatura iperveloce e per nulla usuale. Già si può intuire la potenzialità dell'opera partendo dagli splendidi titoli di testa, evoluzioni del Bass riletto in salsa pop, di Maurice Binder e da quel leit-motiv musicale di Henry Mancini che fa capolino spesso e si integra quasi come una componente essenziale della forma totale dell'opera. Ma c'è altro. Una rilettura è d'obbligo.
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