Magazine Cinema
Spagna, 2010
95 minuti
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nei Pirenei si erano infiltrati gruppi di guerriglie anarchiche: le spagnole C.N.T. esiliate a Tolosa per combattere la dittatura di Franco. Nel 1951, dopo sei anni di lotte infruttuose, l'organizzazione stabilì un cambio di strategia, ritirando i suo gruppi guerriglieri innanzi alla repressione delle armate fasciste e al silenzio dell'Occidente democratico. Alcuni ribelli disobbedirono e continuarono a lottare da soli...
Non ci sarebbe poi molto da dire su Caracremada (Venezia 67, sezione Orizzonti), cinto così com'è, da quell'austera cortina rocciosa che tutto annienta e che sostanzialmente, ne sorregge l'impalcatura. Tant'è, che se non fosse per le coordinate storiche svelate a inizio film, che rappresentano l'unico appiglio verso una tentata comprensione delle azioni che si compiono sullo schermo, difficilmente se ne caverebbe (o quasi: costumi/scenografie) il classico ragno dal buco. C'è anche da considerare però, che tali informazioni risultano oltremodo irrilevanti per la tipologia di messa in scena attuata dall'esordiente Lluís Galter il quale, seguendo la corrente intrapresa da molti autori (e connazionali, soprattutto: Spagna e Messico, le nazioni coinvolte in prima linea) plasma la sua creatura a modello di una tendenza che mai, come in questi ultimi tempi, sembra demolire i generi per ricomporli poi all'interno di un cinema che finora ne ha sempre rappresentato l'antitesi. A notevole esempio, è doveroso citare il "western metafisico" di Mattias Meyer, Los Ultimos Cristeros (2011) un film, che con Caracremada se la gioca proprio nel (fuori)campo dei generi, e che come coglie acutamente l'EdP, "riduce il western a quello che essenzialmente è e non è mai stato" ovvero: cinema che si disperde in sconfinati ed ampi spazi che isolano l'uomo, e lo riducono alla propria essenza. In territori simili infatti, dimora il protagonista di Caracremada (letteralmente, "faccia bruciata"), quell'ultimo contestatore al potere del regime franchista che corrisponde al nome di Ramon Villa Capdevila; animale solitario (perlomeno, fino all'apparizione della misteriosa ragazza pronta a seguirne le orme), braccato e oramai fagocitato nei boschi di quelle montagne che lo vedono costretto ad un estenuante tour di sopravvivenza per non soccombere alle forze nemiche. E anche se Galter opta per una riduzione di quella temporalità (piano)sequenziale che nel film del messicano invece, è ampiamente dilatata, è mediante l'instancabile (ed ossessiva) attività di Ramon (la tranciatura dei piloni dell'alta tensione) che può emergere in qual modo una metafora del definitivo abbattimento di quei paletti di genere (in questo caso, il filone rivoluzionario, o bellico) che in un primo momento, il regista sembra perseguire. In realtà, la scelta più originale, oltre alla radicale costruzione per dettagli (mani, oggetti, claustrofobicamente stretti nella morsa della cinepresa), risiede nella negazione dell'atto vero e proprio della guerriglia (producendo così un'(in)azione del genere), occultato alla vista dello spettatore come anche i volti dell'umanità coinvolta, che soffocati dalla terra, dalle piantagioni, dall'oscurità che ce ne fa percepire solamente gli esili riflessi al chiaro di luna, sono destinati lentamente a svanire assieme agli ultimi aneliti della resistenza. E di fatto, Caracremada è un film occulto, che si forma e trova la sua forza negli incavi rocciosi, gli anfratti terrigeni; in quelle macerie (non solo ambientali) che deposte alla fine su un carro, conducono alla morte dei propri ideali.
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