Carlo Bergonzi a Busseto, davanti al monumento a Giuseppe Verdi
Anche Carlo Bergonzi, l’ ultimo rappresentante della grande scuola tenorile italiana del Novecento, ci ha lasciato. Aveva da poco compiuto novant’ anni e si sapeva che le sue condizioni di salute da tempo non erano buone. Credo sia superfluo rifare in questa occasione la cronaca di una carriera tra le più luminose che la storia del teatro lirico ricordi. Nato a Vidalenzo, in provincia di Parma, Bergonzi è passato alla storia già da vivo come il più grande tenore verdiano del dopoguerra. A renderlo tale fu soprattutto la preparazione tecnica di altissimo livello, che gli consentiva di trarre risultati eccezionali da uno strumento vocale in natura di per sè non particolarmente privilegiato per quanto riguarda il colore e la risonanza di un settore acuto che possedeva facilità, limpidezza ed estensione ma era limitato per quel che concerne squillo e penetrazione di suono. Come spesso accade in questi casi, l’ affinamento e il consolidamento del substrato tecnico permisero al cantante di ottenere risultati di livello eccezionale nelle sfumature dinamiche e di fraseggio. Si ascolti, ad esempio, questa esecuzione di “Celeste Aida” proveniente da una recita del 1973, eseguita a Tokyo.
Di seguito, un estratto della recensione scritta da Miles Kastendieck sul N.Y. Journal-American dopo il debutto del cantante al Metropolitan, avvenuto il 13 novembre 1956:
Bergonzi achieved his stature in the third act. He had started well in being definitely above the average Italian tenor these days in singing musically. While not endowed with a “ringing” voice, he has the essential quality. The fervor began to show late in his performance and some flexibility finally came in action. He contributed considerable to the high standards of the performance.
Le interpretazioni verdiane di Bergonzi appaiono ancora oggi esemplari per la tensione interna del fraseggio, la scansione aulica ma assolutamente priva di esagerazioni retoriche nella sua innata nobiltà, il dominio assoluto della voce in tutti i passi impegnativi della scrittura vocale. Un fraseggio e un modo di cantare che, in relazione alla musica di Verdi, l’ ascoltatore riconosceva immediatamente come “giusto” e tale da far percepire tutte le caratteristiche dei personaggi e tutte le sfumature della scrittura vocale. Gli eroi verdiani di Bergonzi sono sempre stati delineati al meglio nel rendere quell’ obbedienza a leggi morali assolute che sta alla base delle caratterizzazioni drammatiche ideate dal musicista. Dopo Aureliano Pertile e Giacomo Lauri Volpi, solo Carlo Bergonzi è stato capace di portare avanti la tradizione del vero accento verdiano, con esiti fortunatamente documentati da una discografia cospicua, sia nel campo delle registrazioni ufficiali che in quello delle recite dal vivo. Oltre alle interpretazioni verdiane, delle quali le più complete e rifinite sono, a mio parere, quelle di Manrico, Alfredo, Don Alvaro, Riccardo, Don Carlo e Radamés, vorrei ricordare il magnifico Pollione cantato al Met nel 1970 a fianco di Joan Sutherland, Marilyn Horne e Cesare Siepi. Per il mio gusto, si tratta forse della più bella esecuzione della Norma mai testimoniata dalle registrazioni. Bergonzi, in questa circostanza, trova accenti e colori talmente efficaci ed ispirati da rendere il suo ritratto del proconsole romano assolutamente perfetto sotto tutti i punti di vista, nonostante non possedesse la strapotenza vocale di tenori come Franco Corelli e Mario Del Monaco. Vi propongo tre momenti topici di questa fantastica, esemplare interpretazione. Questo è il duetto con Adalgisa.
Il finale del primo atto.
Il duetto “In mia mano alfin tu sei”.
Se mi fosse chiesto di dire qual è la mia incisione preferita del capolavoro belliniano, credo che non avrei dubbi a indicare questa. Tutti i protagonisti appaiono galvanizzati e ispirati come rare volte è dato di ascoltare, in una gara avvincente di sfumature espressive prodotta da una carica teatrale entusiasmante. Cosí ne scriveva Winthrop Sargeant sul New Yorker:
Miss Sutherland’ s performance was, as might be expected, a triumph of coloratura singing. Her control of the long lines of “Casta diva” was impressive, and her agility elsewhere was very nearly flawless. There were other elements in her singing that were less pleasing, although quite familiar. Hers is a cold coloratura voice, without much emotional coloring, and she has a way of bunching her ornamentations together and hurling them out rapidly. In these matters, Miss Callas was her superior. Then there is Miss Sutherland’s peculiar language, which certainly is not Italian though it resembles it here and there as it emerges thorough her faulty diction. Nevertheless, the vocalization of the role was thrilling. She hit the bull’s-eye neatly with all her high notes, and her scale and arpeggio passages were, except for a couple of descending chromatic scales, brilliantly executed. Altogether, this was a first-class Norma, and the Met had won again. The feat that this involved is considerable. There are very few sopranos who can even manage to sing the role of Norma in tune and with a decent amount of vocal ornamentation. Miss Sutherland not only managed this; she even added some ornamentations of her own.
The Adalgisa of the evening was Marilyn Horne, who was making her Metropolitan début. It was high time this début occurred, for anybody who has been around singers knows that Miss Horne is, and has been for some years, one of the world’ s most spectacular mezzo-sopranos. From time to time, with her younger and more expressive voice, she even stole the show from Miss Sutherland, and their duets, which they had sung together many times before in other opera houses, were beautifully coördinated – particularly the finest of them, “Mira, O Norma.” The Pollione was Carlo Bergonzi, that most cultivated of all contemporary Italian tenors, and he sang with a deep understanding of bel-canto style and much beauty of tone. Cesare Siepi’ s Oroveso was equally refined and satisfying. Even the minor roles, Carlotta Ordassy’ s Clothilda and Rod MacWhether’ s Flavio, were well done. It was an all-star night.
Molte cose si dovrebbero ancora dire, in onore di un artista che come pochi altri ha onorato la grande tradizione del nostro teatro lirico e ha dato contributi imprescindibili nella storia esecutiva di Verdi, uno degli autori che ci identificano come italiani, e di altri grandi compositori. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che l’ arte di Carlo Bergonzi, da quando lo ascoltai per la prima volta a Venezia nel 1971 come protagonista del Ballo in maschera, ha rappresentato qualcosa di assolutamente determinante per studiare e comprendere al meglio le ragioni di fondo del teatro verdiano, dal punto di vista musicale e drammaturgico. Avremo comunque tempo e modo di approfondire ulteriormente le caratteristiche della lezione lasciataci da questo grande cantante. Per il momento, meglio lasciare spazio alla musica. Come penultimo ascolto di questo post commemorativo, ecco una delle prime esecuzioni verdiane del Maestro: il ruolo di Carlo VII nella Giovanna d’ Arco interpretata alla RAI di Milano, nel corso dell’ integrale operistica di Verdi che l’ ente radiofonico allestì nel 1951 per il cinquantenario della morte del compositore.
Il cast completo:
Giovanna: Renata Tebaldi
Carlo VII: Carlo Bergonzi
Giacomo: Rolando Panerai
Delil: Giulio Scarinci
Talbot: Antonio Massaria
Coro e Orchestra della RAI di Milano
dir. Alfredo Simonetto
rec. 26. 05. 1951
In chiusura, ecco il commosso ricordo dettatomi a caldo, appena appresa la notizia, dal soprano modenese Cristina Barbieri, già più volte ospite di questo spazio.
Ho appena letto su fb la notizia della morte del grande Carlo Bergonzi. Non andrò a ingrossare le fila di quelli che da subito diranno avidamente di essere stati suoi allievi, purtroppo per me le cose non sono andate così. Non l’ ho mai conosciuto, le nostre strade non si sono mai incrociate e me ne rammarico moltissimo.Ho sempre ascoltato i suoi dischi con l’ avidità di chi vuole gustarne la bellezza e carpirne qualche segreto: la dizione, la bellezza del timbro, la morbidezza e quel bellissimo accento emiliano a me tanto caro. Muore un grande e io mi sento smarrita e sempre più sola. È stato un esempio per me e per tanti altri colleghi, una stella polare che rimarrà per sempre li, nel mio cervello ma soprattutto nel mio cuore, insieme all’ amarezza di non averlo mai potuto abbracciare.
Questa invece è una dichiarazione rilasciatami dal dott. Cesare Ghilardelli, funzionario dell’ Istituto Italiano di Cultura di Stuttgart e conterraneo dell’ artista.
Ci ha lasciati anche Carlo Bergonzi. Quando queste persone, che abbiamo seguito e amato per anni, se ne vanno, è difficile crederlo: “Ma come? Ma se è qui proprio ora, lo sto sentendo che canta Don Carlo”. Per fortuna la sua voce ci resta, il ricordo della sua generosità, della sua genuina interpretazione emiliana, della sua “S grassa”, che rivelava tutto il suo legame con le radici musicali della sua terra di Parma; del suo impegno verso le nuove generazioni, per continuare questa incredibile eredità culturale dell’ Italia. Addio, Carlo Bergonzi. Benvenuto nel Pantheon degli immortali.
Qui di seguito, un ricordo del giornalista triestino Rino Alessi, fine intenditore d’ opera e grande esperto di vocalità.
Carlo Bergonzi, che ci ha da poco lasciato dopo lunga malattia, è legato nella mia memoria al primo “Trovatore” e a uno dei primi “Ballo in maschera” cui ebbi la fortuna di assistere, ancora studente, al Teatro Verdi di Trieste. Erano gli anni d’ oro della lirica e quindi anche un teatro periferico come il Verdi poteva, di tanto in tanto, permettersi il lusso di avere “il” tenore verdiano per eccellenza di quel periodo nelle sue compagnie verdiane.
Il Manrico di Bergonzi, così antieroico e così autenticamente verdiano, resta, a mio modo di vedere, ineguagliato per stile e nettezza nella dizione della parola “cantata”. Furono belle recite in cui debuttava a Trieste un’ Azucena che a Trieste era nata, Bianca Berini.
Ricordo, al termine del secondo atto, la generosità di Bergonzi nel lasciare alla collega meno nota l’onore dell’ uscita da sola per raccogliere gli applausi del pubblico “di casa”. Fu un gesto gentile.
Riccardo è un personaggio che ogni grande tenore interpreta volentieri: e così fu per Bergonzi che ricordo magnifico in una compagnia che poteva annoverare accanto a lui il grande Cappuccilli, Rita Orlandi Malaspina, l’ Oscar deliziosissimo di Daniela Mazzucato. Dirigeva De Fabritiis.
In seguito ascoltai altre volte Carlo Bergonzi, sicuramente in “Aida” all’ Arena e altrove, e credo anche nella “Messa di Requiem”. Sempre Verdi, un autore che fin dal 1955, con l’esordio in “Un ballo in maschera” al Regio di Parma prima e alla Lyric Opera di Chicago poi, fu – per lui nato nelle terre verdiane – particolarmente nelle sue corde e lo vide dominare a livello internazionale fino agli inizi degli anni Ottanta del Novecento.
Questo non gli impedì di frequentare un repertorio molto vasto e in qualche misura eclettico. Fu molto richiesto anche dall’ industria discografica (Canio nei Pagliacci di Leoncavallo incisi per la DGG è un’ interpretazione molto riuscita sotto la guida di Karajan) e, ritiratosi dalle scene, si dedicò alla didattica e all’ insegnamento.
Di recente ho avuto modo di ritrovarlo in un cordiale colloquio telefonico in cui gli chiesi, per un progetto editoriale sul grande basso friulano, di darmi il suo contributo di ricordi a proposito della carriera di Bonaldo Giaiotti. Era stato lo stesso Giaiotti a metterci in contatto.
Si sa come vanno le cose in questi frangenti, l’ intervistato parla soprattutto di sé e nomina appena l’oggetto della conversazione. Non Carlo Bergonzi, che confermò anche in questo caso la sua generosità e non disse una parola a proposito di se stesso, per concentrarsi, con dovizia di particolari, sulla grandezza del collega basso. Un grande artista ma anche una persona molto per bene.
ELISABETTA E DON CARLO
Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore,Dell’ avvenire eterno
suonan per noi già l’ ore;
E là noi troverem nel grembo del Signor
Il sospirato ben
che fugge in terra ognor!
In tal di, che per noi non avrà più domani,
Tutti i nomi scordiam
degli affetti profani.
Addio, maestro Bergonzi!