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Carriers e la poetica dell’apocalisse

Creato il 12 marzo 2012 da Elgraeco @HellGraeco

Carriers e la poetica dell’apocalisse

La Zombie Apocalypse è proprio dietro il Fallout nucleare, nella classifica di gradimento dei generi preferiti, o delle fini del mondo predilette. Al terzo, tutt’altra ambientazione, ma non tanto distante, se ci pensate bene, la Space Opera, o anche la Slice of Life. Questo per soddisfare i cercatori di etichette. Lo spazio, in fondo, coi suoi lidi infiniti, mette alla prova l’essere umano come e forse anche di più di orde d’infetti sbavanti o di razziatori selvaggi in stile Mad Max.
L’Apocalisse è un must have, per questo blog: Quiet Earth, la terra quieta (perché priva di vita, e quindi priva di rumore) una poetica lunga un sogno.
Perché, l’apocalisse è detestata da molti è vero, ma non dal sottoscritto che l’adora. Parlo sempre di tema, letterario e cinematografico, un’ambientazione e le storie a essa legate, che possono davvero scuotere gli animi, a patto di saperle gestire e non cadere in tentazione, assecondando becere influenze derivate da manga fin troppo noti (Ken il Guerriero) e film che, per quanto ami (Mad Max), son partiti dal dramma per finire nell’estetica del fumetto (il terzo e ultimo capitolo in particolare), ipotizzando per la civiltà una rinascita che ha la stessa potenza di un canovaccio teatrale, storia elementare, colori, personaggi tipo, le maschere, e un set naturale, il deserto, ritratto in scorci mozzafiato e distese lucenti.
Insomma, se non vi dispiace e se non l’avete ancora capito voglio parlare, stasera e di nuovo, di apocalisse.

Carriers e la poetica dell’apocalisse

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Ne approfitto per ricordare a tutti il concorso letterario gestito da me e da Alex Girola, ispirato e basantesi sull’universo della Pandemia Gialla, creato da Alex e manovrato (anche) dal sottoscritto. Tutti i dettagli sui perché e i percome li trovate QUI e sul blog di Alex. Mancano poco più di due settimane alla scadenza, ma se avete le palle di provarci, sono convinto che potete ancora riuscire a scrivere un racconto ottimo e inviarcelo.
Questo, per la cronaca. Tornando al genere, invece: uno dei film che mi ha soddisfatto sotto tutti gli aspetti, inerente a una pandemia e al crollo della civiltà che da essa deriva è stato Carriers, al quale dedicai una recensione non priva di scazzi, che non gli rende giustizia (tanto per ribadire che una recensione non è per sempre, come un diamante). Era, infatti uno dei tanti miei celeberrimi periodi in cui sono in procinto di chiudere il blog, ma non ci riesco mai, per senso del dovere, e perché mi piace il suono della mia “voce”, suppongo. E anche per affetto sincero verso qualcuno di voi.
Ma dicevo di Carriers: film “quasi” perfetto, per ambientazione, gestione dei tempi e dei modi, inerenza al genere, coerenza dei personaggi e della trama, cinismo che serpeggia in quasi tutte le sequenze, shock derivante dagli abbondanti panorami di desolazione, gap culturale, inevitabile, che si crea subito dopo eventi catastrofici di tale portata, e un finale che è, non ho remore ormai a dirlo, perfetto. È il finale aperto che tutti i narratori appassionati di racconti apocalittici vorrebbero aver inventato. Nulla che non si possa replicare, in fondo trattasi di temi universali, ma che è difficile gestire con tale distacco e con la poetica, quella vera, pura e terribile che emerge da poche sequenze, l’arrivo in un villaggio marittimo, e dalla consapevolezza che coloro che sono arrivati fin lì spravvivranno solo se saranno molto, molto fortunati. Ma su questo ci torniamo tra poco.

Carriers e la poetica dell’apocalisse

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Una delle maggiori difficoltà che viene incontrata durante la gestione di tale tipo di ambientazione è proprio la suddetta poetica. Elemento non imprescindibile, è vero, ma necessario perché il prodotto finale, che sia film o racconto, possegga quello spessore di contenuti e gestione dei medesimi tale da farlo elevare rispetto all’atmosfera da fumetto, leggasi canovaccio apocalittico, e da renderlo qualcosa di più profondo, terribile, anche bello e divertente, in fondo. Appassionante, che riesca a commuovere, persino.
Ecco, questa distinzione è anche ciò che più terrorizza i partecipanti al concorso. Difficile capire come un mondo infestato dai gialli possa generare poesia, oltre che dolore, combattimenti e stolide strategie di sopravvivenza.
Per capirlo, vi consiglio di guardare Carriers.
Una delle fesserie più comuni, imposte dallo stolido modo in cui si intende e si fa il cinema odierno è la pucciosità dei rapporti umani, spesso contrapposta alla rude cattiveria, talmente tanto contrapposti da precipitare la narrazione in un delirio manicheo (buoni e cattivi su schieramenti opposti come a una partita di football, col bonus fisso del pavido traditore nelle file dei buoni) che porta all’inevitabile decadimento della storia, da potenziale serie A a panna acida scaduta in confezione infiocchettata coi peggiori stereotipi pescati dal capello delle idee. Epiche, in tal senso, le trombette da stadio impiegate per distrarre gli zombie in Zombie Apocalypse, stucchevole citazione dei “fiori del cielo” romeriani, e il vagare insensato dei pochi superstiti che, anziché organizzare la propria esistenza barricandosi e accaparrandosi più equipaggiamento possibile, si mettono in marcia verso mete inesistenti, spesso morendo tutti nel tentativo. Una fine comune a quella del film, che cola a picco, a pensarci.

Carriers e la poetica dell’apocalisse

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Carriers è un viaggio anch’esso, ma motivato, l’idea è quella di raggiungere la costa, vuota da ogni presenza umana (il virus infatti è aerobico e altamente infettivo), per riuscire quindi a sopravvivere di pesca in un mondo che ormai è finito. Nessuna retorica della speranza, nessuna illusione, ma struggente (in alcuni casi) consapevolezza che, ormai, tutto ciò che è stato prima ha cessato di esistere, e che anche i superstiti sono, fino a prova contraria (ovvero fino a quando non inizieranno a sputare sangue, segno dell’infezione) a rischio; cosa che neutralizza qualsiasi aspettativa di vita futura, ma che suggella, in modo definitivo, quella poetica dell’attimo, l’istante da godere, il presente e vivo (come diceva un poeta), di là dell’ultimo orizzonte.
La poetica dell’apocalisse si riduce a un paesaggio marittimo abbandonato, ma contemporaneamente caldo, secco e salato, dai colori ritoccati, probabilmente attraverso la desaturazione. Paesaggio e poche scene, l’arrivo della coppia. Coppia di personaggi che non è tale perché condivide un legame voluto o ricercato, ma imposto, dalle circostanze e dalla selezione naturale, e perché no, persino dalla praticità, per sopravvivere.
I due non si amano, hanno trascorso le ultime settimane evolvendo e compiendo atti tragici e inevitabili, e sono giunti alla salvezza senza quasi più scopo. Potrebbero farcela o scomparire, potrebbero amarsi e mettere al mondo un paio di figli che non avrebbero alcun futuro, o potrebbero infettarsi e morire. C’è di che struggersi.
Questo è quello che si definisce un finale aperto, a ogni possibilità, è ciò che amo nell’apocalisse, la Celebrazione del Fato, nella sua forma più pura e spietata.
Voi, guardatevi Carriers, vale ogni minuto del vostro tempo. A domani.

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