di Donato Salzarulo
So che morirò, ma non lo credo
J. Madaule
Al termine della lettura dell’ultimo libro di Franco Arminio, Cartoline dai morti (Nottetempo, 2010, pagg. 137, euro 8,00), mi è tornata in mente una massima di Spinoza. Cito a memoria: l’uomo libero su nessuna cosa riflette meno che sulla morte. La sua sapienza non è meditazione della morte, ma della vita.
In fondo, mi sono detto, i morti non scrivono nulla e chi attribuisce loro delle cartoline è un abile e sperimentato scrittore vivo (io preferirei di più definirlo poeta) che utilizza questa intelligente finzione per parlare d’altro. Della vita, direi. Della vita dei singoli e di tutti che sappiamo tragicamente mortale. Ogni storia deve finire / ogni pigna di glicine sfiorire.
E’ probabile che il filosofo olandese, come Epicuro – ricordate? La morte non ci riguarda, finché viviamo non esiste e, quando sopraggiunge, noi non ci siamo più -, mascherasse dietro quel suo pensiero la disperazione, l’angoscia del dover, comunque, morire. Probabile che volesse convincersi di un pensiero di cui forse non era intimamente convinto; non è escluso che stesse esorcizzando. E’ vero, però, che della morte parlano solo i vivi. In chiusura, è l’autore stesso a confessarlo: «I morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina.» (pag. 136)
Scrivere e parlarne, allora, quale finalità può avere? Provo ad indicarne qualcuna:
a) Accrescere la propria consapevolezza sull’autentico significato della vita, su ciò che profondamente la caratterizza (tragicità, contraddittorietà, dolore, precarietà, casualità; ma anche transindividualità, approvvigionamento e uso di beni comuni, a partire dalla lingua, corrispondenza d’amorosi sensi, ecc.). Si potrebbe dire che c’è vita perché c’è morte. La nostra passione è il Tempo, non l’eternità.
b) Sforzarsi non dico di curare, alleviare la propria angoscia; ma, almeno, tenerla a bada. Compito difficile e gravoso: il tempo che resta ad ognuno di noi potrebbe essere anche inferiore a sessanta secondi. Per fortuna, questo sapere, durante il giorno, lo dimentichiamo o lo mandiano sullo sfondo. Diventasse il nostro pensiero unico e dominante, il morto afferrerebbe il vivo. La mitologia vuole che sia stato Prometeo a regalarci, oltre che il fuoco, questo farmaco (nel doppio senso di rimedio e veleno) che si chiama oblio della morte. Arminio stesso, superati gli attacchi di panico, scrive in Nota: «Dopo dieci, venti minuti sei di nuovo sul binario morto della calma o dell’agitazione usuale e allora puoi solo parlare della tua vita o di quella degli altri» (pag. 136). Infanzia, adolescenza, gioventù, maturità, tarda maturità e vecchiaia (per chi ci arriva) hanno il pregio di regalarci un rapporto sempre diverso con l’avvento-evento mortale.
c) Condurre una battaglia culturale contro chi spersonalizza la morte: alla fine è sempre il singolo che muore. E si muore da soli anche durante un terremoto, uno tzunami, una tragedia collettiva, un carico di bombe esploso sulle teste di popolazioni più o meno inermi. Non consola sapere che si muore insieme agli altri; del resto, nelle sciagure comuni, chi sopravvive è a rischio di patologia. Siccome ogni momento potrebbe essere quello buono per la nostra fine, ognuno di noi può considerarsi un sopravvissuto. E, perciò, esposto al rischio di non farcela ad affrontare il “mestiere di vivere”. Sotto questo profilo, davvero la morte si sconta vivendo e un po’ si muore ogni giorno.
d) Apprestare cornici sociali per dare respiro ad Eros e alle forze della vita contro Thanatos, per costruire cori solidali dentro e intorno alla tragedia, darsi leopardianamente i conforti (penso alle posizioni espresse ne La Ginestra) e ridurre, per quanto possibile, i danni della natura matrigna. In fondo, siamo tutti condannati a morte. Tutti abbiamo nel corpo una bomba ad orologeria che esploderà con modalità, in circostanze, luoghi e momenti ignoti. Non sarebbe male se i morti aiutassero i vivi a vivere meglio. Ma, poveri morti, dal giorno della loro morte, come il padre dell’autore al quale il libro è dedicato, non hanno più bocca e non dormono più. Questo lavoro, allora, può essere fatto soltanto dai vivi.
La tragedia aggiuntiva è che i vivi portano coscientemente la morte ad altri vivi per motivi che dovrebbero apparire futili, ma forse non lo sono: guerre per il controllo di territori e risorse, guerre religiose, civili, stermini etnici, ecc. ecc. Non si dimentichi che la nostra cultura mette a disposizione testi famosi per lo studio dell’arte della guerra.
Ciò premesso, Arminio non è il primo a dar la parola ai morti. Dante, come sappiamo, effettuò un avventuroso e visionario viaggio con guide abbastanza esperte fra gironi infernali con memorabili dannati, montagnette di anime purgatoriali e sfere celesti di beati. Parlare coi morti, ha sostenuto recentemente Beppe Sebaste, «è la motivazione vera e prima di ogni scrivere» (cfr pag. 47 di Nuovi Argomenti, n° 48, 2009). Può darsi. Anche il filosofare per alcuni è esercizio di preparazione alla morte.
Ma torniamo al libro di Arminio. Da quale luogo imbucano le loro cartoline questi morti? Dagli uffici postali di quale paese? Dove hanno la loro dimora? Tra il regno dei morti e quello dei vivi ci sono confini? «Io ancora non sono morto, ma comunque mi sono messo la foto sulla lapide a fianco di mia moglie.» (pag. 120). Se non ci si limita a sorridere e la si prende sul serio, questa cartolina vuol dire solo che tra vivi e morti i confini sono labili. Per alcuni inesistenti. Come dimenticare che Circo dell’ipocondria (Le Lettere, 2006), una precedente opera dell’autore, molto importante per comprendere anche questo libro, si apre con l’Intervista a un morto di nome Arminio?
Altri tempi quelli di Dante, quando i vivi credevano di sapere con certezza in quali luoghi finissero le anime. I morti di Arminio sono collocati, per lo più, al cimitero. E, pur avendo ricevuto estreme unzioni (uno, addirittura, per venti volte, pag. 66), funerali religiosi, o subìto l’istante mortale durante la processione (pag. 101), non hanno da dirci nulla sul cosiddetto Aldilà. Qualcuno si lamenta per la neve che entra dalla fessura del loculo e ci rimane per mesi (pag. 133), qualcun altro è sopreso e soddisfatto per la cartolina con la dedica di Gianni Morandi finita sulla sua lapide (pag. 117); c’è chi ci fa sapere di avere, sempre sulla lapide, la foto col pantalone nuovo che gli scattò Federico il fotografo (pag. 92) e chi di avere tante bambole nella bara. Non contenta la madre continua a portarle giocattoli da appendere alla lapide (pag.71). Evidentemente suppone che nell’Aldilà la figliola continuerà a giocare come nell’aldiqua. Cattolicesimo svuotato e paganesimo. Franate le grandi visioni, nel disincanto dell’epoca, galleggiano residui, relitti, ossi di seppia di antiche concezioni.
Cosa c’è dopo la morte? Niente. Una cartolina va ben oltre: «Non c’è neanche il niente, almeno così mi pare» (pag. 121). Pascal è servito. Nessuna scommessa e nessuna cieca speranza. Credere in Dio? «Ero andato dal fabbro. Stavamo parlando della ringhiera. Come si fa a credere in dio quando uno muore mentre sta parlando di una ringhiera?» (pag. 61).
Un teologo risponderebbe che Dio è causa universale, non esclusiva. Dio non determina circostanze, luoghi e modalità del morire di ognuno. Se, durante il dramma consumato sul Calvario, abbandonò il Figlio sulla croce perché dovrebbe preoccuparsi di noi? Il teologo luterano Dietrich Bonhöffer, fucilato nel campo di concentramento di Flossenbürg all’alba del 9 aprile 1945 perché resistente antinazista, sosteneva:
«Dio vuole che sappiamo che dobbiamo vivere come uomini che dirigono la propria vita senza di lui. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona […]. Dinanzi a Dio e con Dio, noi viviamo senza Dio. Dio si lascia estromettere dal mondo e mettere sulla croce. Egli è debole e senza potenza nel mondo, e quello è appunto il modo, il solo modo, in cui egli è con noi e ci aiuta.» (D. Bonhöffer, citato da J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970, p. 176).
Sto citando un morto, un morto vero. Dove si trova in questo momento questo teologo? Vicino a me. Sotto i miei occhi. Sto riflettendo sulle sue parole. Sulla vita di Bonhöffer, sei o sette anni fa, ho letto un libro di Eraldo Affinati: Un teologo contro Hitler… Questo per dire che se i cadaveri dei morti stanno al cimitero a subire la decomposizione, ossa o cenere in un’urna, o disciolti in terra, nell’aria o nell’acqua, le persone – quelle persone che sono state – rimangono tra i vivi. Perché ogni persona, paradossalmente, è resa invisibile, ma anche unica, irripetibile e insostituibile proprio dalla morte. Nei ruoli e nelle funzioni sociali si può essere sostituiti, come moribondo, moriente o morto no. Impossibile. I morti possono stare tra noi e con noi non solo dentro gli album di famiglia, ma nelle azioni, nei gesti, nei pensieri, nelle emozioni, negli insegnamenti di chi li ha conosciuti (e continua a conoscerli), di chi li ricorda volentieri e continua ad amarli.
Sostiene una cartolina: «All’inizio chi ci ama vorrebbe riaverci, poi si abitua al fatto che siamo morti, poi per tutti stiamo bene dove stiamo.» (pag. 116). Probabile. Io non so se mio padre stia bene dove sta. Ma dove sta? Quello che so è che il rapporto con lui, come cambiava in vita, si è continuato a modificare anche dopo la sua morte. Certo, dopo quasi vent’anni mi sono abituato all’idea di non poterlo più vedere, abbracciare, toccare; ma non mi sono abituato alla sua assenza. Vi sono giorni e momenti in cui avverto, profonda, la sua mancanza. Vorrei tornare a interrogarlo, parlargli, avere o non avere conferme di date, circostanze, azioni… Quante volte spero di sognarlo? La sua è stata anche un po’ la mia morte. Un mondo è andato via con lui.
E così mi accade per altri morti che amo e che ho amato. Mi succede, vorrei aggiungere, anche per morti illustri, che non ho conosciuto di persona, che hanno una bella tomba, oltre che al cimitero, in biblioteca o nelle pagine delle storie letterarie, filosofiche, artistiche, ecc. Bonhöffer, ad esempio, è un fucilato a cui chiedo spesso un consiglio, un’idea, un pensiero, il racconto di un’esperienza. In questi nostri confronti, io indosso sempre i panni del non credente; lui quelli del credente… E che credente!… Che stoffa!…
Quasi tutti materialisti volgari e nichilisti, i morti di Arminio non parlano molto di ciò che accade a dramma compiuto. In generale sono di poche parole. Amano l’aforisma ed hanno il gusto del paradosso. Per certi versi, suscitano il sorriso sulle labbra. L’ultimo si limita a ripetere: «Pure io, sì pure io» (pag. 134). Che dire? Simpatico e amaro. Quello più loquace va oltre le 600 battute (spazi inclusi) per farci sapere che l’unica cosa di cui si dichiarava contento era il presepe da mostrare agli altri. Gesù, oltre a nascere, consumò la sua giovane vita in molte altre altre azioni. Secondo i vangelisti ufficiali pare, addirittura, che abbia fatto dei miracoli. Se chi dovrebbe assumerlo come esempio rimane, per così dire, fissato sul momento e le circostanze della sua nascita, cosa può farci lui? Un’esistenza più ricca, variegata, avventurosa, generosa, soddisfatta, giusta o ce la diamo noi oppure non ce la regala nessuno. A questo punto, chi lega i suoi desideri ad un’unica soddisfazione (quella del presepe), conclude “giustamente” la sua esistenza morendo da solo la notte di Natale (pag. 94). Caso o disegno? Oppure ciascuno scegliendo come vivere sceglie anche un po’ come morire?
Gli altri morti affidano alle cartoline non più di due, tre, quattro righe senza mai firmarle.
Questi morti, infatti, sono tutti anonimi. Qualcuno si limita al nome proprio: Alfredo (p. 99), Mario (pag. 105), Pietro (pag. 126), Antonio (pag. 125). Il perché di questa scelta dell’anonimato, la spiega forse Mario, in rappresentanza di tutti: «Mi chiamo Mario. Mi chiamavo Mario anche da vivo, ma allora il mio nome serviva a qualcosa.» Ecco, quello che Baudelaire avrebbe chiamato il dio dell’Utilità. Se qualcosa non serve a qualcos’altro se ne può fare a meno. Se da morti non serve più distinguersi perché il processo di individuazione è terminato ed ognuno di noi è soltanto un cadavere da smaltire per ragioni igienico-sanitarie, tanto vale allora eliminare tombe e loculi. Una bella fossa comune o una bella pira. E’ la direzione sociale e culturale in cui stiamo andando. La Chiesa cattolica, tanto per dirne una, che fino a qualche anno fa aveva problemi ad autorizzare la cremazione dei corpi (perché la resurrezione notoriamente riguardava i corpi e non soltanto le anime), oggi ha dato il via libera. Le dottrine e i catechismi, di fronte al dio dell’Utilità e del profitto, possono essere abbandonate o “contestualizzate”.
I morti di Arminio scrivono le loro cartoline seguendo una scaletta implicita e scegliendo liberamente su quali punti insistere. Così quasi tutti raccontano il loro modo di morire (improvviso, atteso, istantaneo, dopo un’agonia, ecc.) e l’eventuale causa. Si tratta per lo più di malattie diagnosticate (cancro al polmone, al cervello, all’intestino; infarto, cirrosi epatica, diabete, ecc.), generiche (sentirsi male o malissimo), sconosciute e non diagnosticate (malattia del sangue); spesso ci si si limita ad indicare dei sintomi: mani ferme, ghiacciate; martellata al centro del petto; giramento di testa o testa leggera; pesantezza alle gambe, ecc.
C’è chi muore suicida (impiccarsi è la modalità più frequente) e chi viene ucciso: la moglie gettata nel pozzo dal marito, la giovane donna impiccata dai genitori contadini perché innamorata dell’uomo sbagliato – «non nel Medioevo, ma nel 1929». Non mancano i morti per incidenti: fulminato dalla corrente, investito da una macchina o da un camion, caduto da un’impalcatura, dentro la macchina accappottata, perché scambiato per una quaglia da un cacciatore, ecc. Ci sono, infine, i morti di vecchiaia… Mancano all’appello i morti in guerra, i fucilati come Bonhöffer, i gasati e giustiziati a vario titolo, gli sterminati nei campi di concentramento, i morti affamati, per epidemie varie, ecc. ecc. In generale, direi, che i morti di Arminio sono “esistenzialisti”; sembra che abbiano avuto la fortuna o la sfortuna di non attraversare il mattatoio della storia.
Qualcuno indica la nazione in cui è stato raggiunto dalla violenza dell’istante mortale (Canada) o la città (Zurigo); qualcun altro si limita a dire “al mio paese” e qualcun altro “non al mio paese”; la maggioranza precisa il luogo: ambulanza, letto, pavimento, davanti al frigorifero, in macchina, per strada, a terra nella mia vigna, ecc. Davvero si può morire dappertutto. Concentrandosi solo su questo punto, una cartolina sembra scherzarci su: «Chi muore a casa muore in camera da letto o in bagno, quasi mai in cucina, qualche volta anche nel salotto. Io sono morto sul balcone.» (pag. 56)
Spesso aggiungono l’età, e ancora più spesso la circostanza: stavamo lavorando al cinema, uscendo dal bar ho sbagliato strada, mi stavo togliendo il pigiama, mi ero appena alzato, stavo giocando al biliardo, camminavo per la strada, mentre facevo l’amore, ecc. Provano anche ad indicare l’ultimo gesto, pensiero o cosa vista: la rosa, la mano che cerca di accendere la luce del comodino, il pensiero di non aver comprato il loculo o di non aver finito di pagare il trattore, il non essere riuscito ad accendere la radio, ecc. A volte non manca un brandello della loro vita, un lampo di storia: il lavoro o la professione (maestro, muratore, contadino, calzolaio, barbiere, medico, professore di lettere, ecc.), la condizione sociale o i progetti (vivevo da solo, potevo diventare un uomo importante, ero maestro pensionato, ero emigrato, ero abbastanza famoso, ecc.) e, infine, un accenno alla propria filosofia di vita: la vita prima o poi ti frega, è tutta un imbroglio, il mondo è un vago fastidio, ecc…
L’impressione complessiva è che questi morti concludano esistenze già stentate e solitarie, vite fuori posto e sfortunate (anche quando sembrano allegre, riuscite e improntate all’ottimismo), vissute tra indifferenza e banale quotidianità, segnate dal mal di vivere, dalla sofferenza e dalla malattia. Vite per le quali non si nutre alcuna nostalgia; non hanno voglia di ritornare al mondo. Non hanno giorni felici da ricordare. Anche chi è morto facendo l’amore tace. Non avverte il bisogno di rivivere il momento. Su questo punto quasi tutti tacciono. Soltanto due scrivono: il primo per sostenere che la sola cosa che gli manca è l’aria (pag. 102), il secondo perché vorrebbe soddisfare «una curiosità un po’ scema. Vorrei sapere se poi mio cugino Maurizio è riuscito a vendere la sua Golf di seconda mano per la quale voleva sei milioni.» (pag. 107). Vite fallimentari, da dimenticare, da lasciare nel buio eterno del niente:
«Avevo appena finito di vedere la televisione. Mi sentivo debole. Mi sono disteso sul divano e ho sentito come una mano gigantesca che mi premeva il cuore. Ho pensato che stavo morendo e non avevo comprato il loculo. Sicuramente mi avrebbero messo sotto terra. E questo era l’ultimo fallimento della mia vita.» (pag. 9)
Se per un attimo distogliamo l’attenzione dal messaggio e ci concentriamo sul “disegno delle frasi” come lo chiama Arminio in Nota, si può dire che il lessico di queste cartoline è facile, alla portata di un alunno delle scuole medie inferiori; che la sintassi è piana, semplice e scorrevole. I periodi si allineano uno dietro l’altro, riducendo al minimo le subordinate. Paratassi piuttosto che ipotassi, molti indicativi, pochissimi congiuntivi, si contano sulle dita di una mano anche i condizionali, gli infiniti e i gerundi. Il prevalere della coordinazione pone le proposizioni sullo stesso piano. Poca articolazione o gerarchia dei pensieri. Argomentazione ridotta a ragionamenti elementari. Cosa c’è da spiegare?…
La pagina si fa mimetica della negazione e rimozione della morte che avviene nelle nostre società. Siccome si preferisce non parlarne, sembra che non si muoia più o che non si muoia più veramente: «Io sono morto quando ancora si moriva veramente. Mi ricordo il momento che è arrivato il prete e che dovevano chiudere la bara. Mia madre e mia sorella gridavano così forte che pure il prete si è commosso.» (pag. 112) Ci vuole fortuna anche a morire!
Ridotti al silenzio e all’afasia, i morti preferiscono la lingua della poesia a quella della prosa: sono evocativi, sintetici, allusivi. Preferiscono le metafore, i paradossi, le “acutezze” geniali, lo spiazzamento. Sono un po’ surrealisti. Non scrivono saggi né trattati filosofici sulla morte (in una società che la nega chi avrebbe il tempo e la voglia di leggerli?). Si limitano ad alcune generiche assunzioni heideggeriane (siamo “esseri-per-la-morte” e destinati al niente) e ad una visione della vita sociale dominata dall’inautentico: fastidio, indifferenza, solitudine, coazione a ripetere, ossessioni, sfortuna, dio dell’utile, ecc.
Per il resto, è come se questi morti dicessero: leggete pure le nostre cartoline, ma non prendeteci troppo sul serio. Non stiamo scherzando, abbiamo sempre paura della morte e, se fosse possibile, ora ancora di più; ma io, ad esempio, essendo morto alle sette del mattino, posso consentirmi la freddura di scrivere che il mio è stato «un modo come un altro per cominciare la giornata» ed io, che nella vita mi sono sempre sentito affannato e fuori posto, adesso, finalmente posso riposare «tranquillo e in pace nella tomba vicino alla mia.» (pag. 98). E’ surreale quello che dico, lo so, ma siate leggeri, non dimenticate le lezioni americane di Calvino…
Cartoline amare, quindi, quelle di Arminio, surreali, acute, umorali e intelligenti che regalano al lettore una battuta, un pensiero, una metafora illuminante, un quadro desolato, una suggestione, una verità sotterranea…
A volte chi legge abbozza un sorriso, più per convenzione sociale che per altro – perché come si fa a non sorridere anche un po’ della morte?, come si fa a portarsela sempre addosso? -. Un sorriso accennato, che non apre alla gioia, alla letizia del cuore, alla comprensione che sì, siamo soli, ma dentro questa vasca comune, questa cultura, questa lingua-luogo che traccia i confini del nostro pensare e sentire. Il saggista e polemista Sven Lindquist in Sterminate quelle bestie, un libro che nel genocidio delle popolazioni africane perpetrato dagli europei vede un anticipo di ciò che accadrà poi nei campi di concentramento tedeschi, scrive:
«La società, l’arte, la cultura, la civiltà intera sono solo scappatoie, un unico gigantesco autoinganno il cui scopo è di farci dimenticare che incessantemente cadiamo attraverso l’aria e ci avviciniamo ogni istante di più alla morte.» (citato in Iona Heath, Modi di morire, Bollati Boringhieri, pag 27).
Vero. Al di là del fatto che senza questo “autoinganno” , non si comprende neppure perché Lindquist abbia scritto e io stia qui a leggere queste cartoline e a riflettervi su.
Però è pure vero che Eros e le forze della vita sono altrettanto ostinate e tenaci di quelle della morte. La vita è un imbroglio, come sostiene uno di questi morti; un imbroglio che merita di essere vissuto, un imbroglio che dona, addirittura, cieche speranze d’immortalità e resurrezione. E tutto all’interno di quelle nicchie adattive ed evoluzionistiche definite società, arte, cultura, civiltà. Zanzotto lo chiama, se non ricordo male, “principio di resistenza”.
Ho sempre pensato che i poeti abbiano sonde e antenne sensibilissime.
Arminio è poeta autentico. Lo è in modo speciale. Oltre agli umori delle sue crisi di panico e della sua ipocondria, in queste cartoline ha drenato il diniego della morte, la rimozione, l’indifferenza per chi guarda l’ultima volta una rosa, la povertà, la ripetività, la banalità, la miseria, l’io-io delle nostre insoddisfatte esistenze. Ha portato sulla pagina venature e falde sotterranee delle nostre ansie e angosce sociali.
E’ la morte vera che è morta, sembra dirci, è la vita vera che manca.