Quella che state per leggere è l’anatomia di un delitto politico avvenuto oltre trentasette anni fa. Abbiamo analizzato minuziosamente, con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica, un avvenimento storico che, nonostante il tempo passato, è ancora cronaca viva, al punto da meritare, dopo cinque indagini giudiziarie e quattro processi, l’istituzione di una nuova Commissione d’inchiesta parlamentare, la seconda, senza considerare le tante sedute dedicate al tema dalle Commissioni stragi che si sono succedute nel tempo. Una cronaca così viva che perfino oggi, come potrete leggere, emergono novità e non di poco conto. A cominciare da quelle che riguardano il luogo dove il 16 marzo 1978 tutto è cominciato: via Fani, il teatro della strage che tolse la vita a cinque servitori dello Stato: loro difendevano quella di un uomo politico che da quel momento, per cinquantacinque giorni, finirà nelle mani di una banda terroristica prima di essere assassinato.Sono tante le cose che non tornano sul caso Moro. La mini Clubman Estate sul lato destro di via Fani, all'incrocio con via Stresa. Di proprietà di una società del Sisde. Come del Sisde erano diversi appartamenti nello stabile di via Gradoli, uno dei covi (e forse delle carceri) delle Br a Roma. Il mistero o l'imprecisione del numero delle Br presenti all'agguato: 10, 12, 9 .. il numero cambia col passare con gli anni e a seconda di chi parli. Il primo pentito delle Br Patrizio Peci, che parla de relato. E Valerio Morucci, presente in via Fani, che nel suo memoriale (di comodo) lascia fuori la compagna Adriana Faranda. Ma nessuno riesce a fugare i dubbi sui colpi sparati: come i proiettili prodotti dalla Fiocchi di Lecco. Come ne erano venuti in possesso le Br? E i proiettili che le perizie indicano di provenienza non militare, probabilmente da un deposito Gladio? Altro mistero: chi ha sparato in via Fani? Qui non è un mistero: le Br (e chi ne avvallato le dichiarazioni) preferiscono giocare con la realtà. Più di 90 proiettili sparati, in un minuto e mezzo. Ma forse i colpi sono stati anche di più, perché molti dei mitra avevano delle retine per recuperare i bossoli (e non lasciare tracce, perché?). Le perizie balistiche dicono anche che metà dei colpi furono sparati da una sola arma. Chi è il killer che spara a raffiche brevi? Morucci ha raccontato che il suo mitra e quello di Fiore (residuati bellici, tra l'altro) si erano inceppati. E hanno perso diversi secondi per cercare di sbloccarli. E allora: chi ha sparato, da dove e con che ruolo, visto che le Br hanno sempre negato presenze esterne? Altra discrepanza tra la realtà dei fatti e il loro racconto: lo sparatore da destra. A seconda di chi racconta, Moretti è rimasto in auto a fermare la 130 con Moro oppure è sceso a sparare. Ma chi ha ucciso il maresciallo Leonardi (il capo della scorta) che, pur essendo esperto di tiro, non è riuscito a fare alcuna reazione? Le perizie sui colpi, sui cadaveri, sulle testimonianze (che dicono che prima delle raffiche si sono sentiti dei colpi di pistola) raccontano una diversa versione. Ovvero che la prima operazione del commando delle Br (da sole?) è l'eliminazione dell'elemento più pericoloso della scorta, Leonardi. Con quei colpi da destra negati da Morucci e Moretti ma resi certi dalle perizie. In seguito questa persona che ha sparato da destra, si sposta per evirare i colpi delle altre Br. Che sterminano gli altri membri della scorta... Questo sparatore non è mai stato individuato, come nemmeno il passeggero dell'Honda, quello con la faccia magra, come De Filippo. C'è il mistero delle strane presenze in via Fani: il colonnello dei carabinieri Guglielmi presente in via Fani per un pranzo. Colonnello dei carabinieri e del Sismi (che aveva lavorato con Maletti nell'ufficio D del Sid). E anche il cognato di un addestratore della base Gladio di capo Marrargiu, Bruno Barbaro. Come è piccolo il mondo, specie in certe mattine a Roma. Altri punti che non tornano: la gestione del sequestro (apparentemente senza nessuna strategia), in quel buco di via Montalcini. I due postini delle Br, Morucci e Faranda, che giravano indisturbati per una Roma blindata coi loro comunicati. A leggere quello che raccontano gli autori emerge la pressapochezza delle Br nel preparare l'agguato (nessuna esercitazione prima, nemmeno con le armi), nel gestire il rapimento, nel concordare una linea con lo Stato e la DC poi. Tutto lasciato un po' al caso, alla fortuna. O forse a delle coperture esterne che hanno reso il lavoro di Moretti e degli altri più semplice. Altro che “geometrica potenza”. Anche la data scelta, sarebbe stata un caso .. dobbiamo e possiamo credere alla loro verità? A quello che hanno raccontato “de relato” per sentito dire o per semplice deduzione Patrizio Peci e Antonio Savasta (il responsabile del sequestro Dozier del 1981)? Oppure al memoriale (tardivo) dei dissociati (non pentiti) Valerio Morucci e Adriana Faranda? Il memoriale di Moro e le sue lettere, ritrovati parzialmente e in due occasioni, nel covo di via Monte Nevoso (nell'ottobre 1978 e nel 1990). Chi ha fatto sparire le carte mancanti? Oltre a Moretti, Maccari e alla Braghetti c'era un quarto uomo ad interrogare Moro? Perché le Br non hanno subito pubblicato tutto quanto in loro possesso, come avevano promesso? Esisteva un canale a disposizione di Moro per “parlare” con l'esterno e portare alle Br qualche materiale utile per la sua liberazione? Queste sono alcune delle discordanze rilevate e raccontate dagli autori del libro “Complici –caso Moro, il patto segreto tra Dc e Br”, Stefania Limiti e Sandro Provvisionato. Un libro importante perché, come altri prima, cerca di infrangere il velo di silenzi, omertà e coperture che ha coperto la verità sul rapimento del presidente della DC Aldo Moro. Arrivare alla verità, sul caso Moro, è prima di tutto un atto di giustizia nei confronti delle vittime. La famiglia di Moro e anche quella degli agenti della scorta: Leonardi, Zizzi, Iozzino, Rivera e Ricci. Ma c'è anche una ragione storica, che ci costringe a non fermarci, anche se sono passati tanti anni e molti dei protagonisti della storia sono purtroppo morti. Sapere come (e da chi) la nostra storia politica è stata in qualche modo condizionata da entità esterne. Non il “grande vecchio”, ma servizi segreti stranieri. Come la Cia americana, per esempio. Dobbiamo sapere la verità “la verità ci aiuta a essere coraggiosi”, ha scritto lo stesso Moro: conoscere la vera storia dell'agguato, della trattativa tra Br e Vaticano, tra Br e Dc, è importante. Fa la differenza tra una democrazia trasparente, pulita, da un paese a sovranità limitata, con istituzioni a scartamento ridotto. C'è stato forse un gioco di ricatti tra Br (o una parte di queste) e la Dc, che ha portato a queste non verità (nemmeno i processi e le commissioni parlamentari hanno fatto luce su tutto)?È per questo che il nostro racconto comincia proprio in via Fani dove – ora è possibile dirlo senza più ombra di dubbio – l’agguato delle Brigate rosse non andò come hanno stabilito le tante sentenze giudiziarie e neppure come ha raccontato l’unica «voce di dentro» dell’organizzazione armata presente sul luogo della strage: Valerio Morucci. Infatti quella mattina il commando non era composto solo da dieci brigatisti (otto uomini e due donne), ma ben supportato da elementi estranei che parteciparono in maniera attiva. In questo libro ricostruiamo pazientemente, e con l’aiuto indispensabile delle tante perizie tecnico-scientifiche che si sono susseguite negli anni, la dinamica di un’operazione terroristica che fino a oggi presentava troppi buchi illogici, troppe anomalie, troppe discrasie. A cominciare dagli effettivi brigatisti presenti sul posto, per finire a quelle oscure presenze in veste di osservatori, ma anche di facilitatori, di persone che con l’eversione armata non c’entravano nulla, semmai puntavano a una diversa azione eversiva, per così dire «statale». Con stupore abbiamo dovuto constare che, quando c’è odore di servizi segreti, magistrati anche molto preparati e audaci hanno come un mancamento e diventano improvvisamente poco curiosi.Sappiamo già che solo questa nuova ricostruzione dell’assalto del 16 marzo – e solo per aver fatto il nostro mestiere di giornalisti – basterà a farci piovere addosso le solite, stucchevoli critiche di «dietrologia» e «complottismo». Non ce ne rammarichiamo. Se l’esercizio di buon giornalismo comporta anche il fatto di non accontentarsi mai delle verità ufficiali o delle mezze verità, e quindi di studiare non solo la scena ma anche il retroscena dei fatti, il buon giornalista deve per forza essere un po’ «dietrologo». Altrimenti è solo un megafono altrui.In questo libro abbiamo passato al microscopio ogni singolo istante di quei tormentati cinquantacinque giorni con un unico scopo: dare senso logico a ciò che senso ne aveva ben poco. Abbiamo voluto dare dimensione a tutti quei fatti, grandi o piccoli, sui quali ancora non esiste un’accettabile convergenza tra racconti, indizi, prove, dichiarazioni, testimonianze.Dall’analisi minuziosa della dinamica della sparatoria e del rapimento dell’ostaggio alle confuse vie di fuga del commando; dalle tante bugie sulla «prigione del popolo» in cui Aldo Moro venne detenuto all’opaca e nebulosa gestione politica del più importante sequestro di persona mai compiuto in Italia; dai silenzi calcolati dei brigatisti alle campagne d’opinione di una parte consistente della Democrazia cristiana, gli uni e le altre finalizzati all’ottenimento e alla concessione del «perdono». Una soluzione tombale sotto cui seppellire la verità dei fatti, scomoda per le Brigate rosse così come per il potere, non solo quello democristiano; per finire con l’infinita e scandalosa gestione delle carte recuperate a rate in via Monte Nevoso – e che contenevano il vero pensiero del prigioniero – fino all’individuazione, quanto mai tardiva, del misterioso «quarto uomo» a guardia della prigione. Tutti aspetti che, oltre ogni ragionevole dubbio, non hanno mai quadrato, innegabilmente frutto di occultamenti, silenzi, omertà. Quali verità dovevano essere coperte?
“Il giorno 4 avete saputo uffi cialmente che c’era la direzione, l’avete saputo uffi cialmente perché sapevate tutto, dico tutto ciò che avveniva nella Dc attraverso un canale preciso, Morucci, lasciamo stare… non lo voglio dire in quest’aula…”L'avvocato della Dc Giuseppe De Gori a Valerio Morucci, processo d’appello Moro-uno, 28 gennaio 1985.Questo libro mette in fila i fatti e le persone, nel loro contesto storico: i brigatisti e gli uomini dello stato. Andreotti e Cossiga. Don Mennini e suor Teresilla, questa strana suora che ha avuto molti contatti in carcere con Morucci, nei mesi della sua dissociazione, quando più voci, dentro la democrazia cristiana chiedevano di mettere una pietra sul passato. Come poi è avvenuto col memoriale, con la semilibertà, con le sentenze. E con una verità giudiziaria forse di comodo.
“Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa ottenne larghi poteri dal presidente Andreotti, ma non dall’Arma. Lui era solo nell’Arma. Aveva molti nemici anche nei servizi segreti. Dalla Chiesa e io non parlavamo mai al telefono di questioni delicate perché sapevamo, per certo, che eravamo controllati. Di sicuro ci controllava anche la Cia.”Generale Nicolò Bozzo, braccio destro di Dalla Chiesa. Conversazione con gli autori, 7 gennaio 2015.In questo racconto troviamo Dalla Chiesa e i suoi uomini che si mettono sulle carte di Moro, per una pista investigative che il generale seguiva da anni. Una pista che mette assieme le stragi della strategia della tensione e Gladio. La lista completa degli insospettabili che avevano destabilizzato il paese per impedire il cambiamento politico e sociale nel paese. Forse era questo il segreto da tenere nascosto, per una ragione di Stato, anche a costo di sacrificare Moro? La nuova Comissione Moro si è messa al lavoro: molti dei protagonisti di questa storia sono morti. Ma c'è ancora modo di arrivare a quella verità che ci renderebbe finalmente liberi. L'intervista al generale Nicolò Bozzo sul Fatto Quotidiano:
Generale non crede che avreste dovuto denunciare le vostre informazioni in modo più prepotente durante quei drammatici 55 giorni, pretendendo che almeno si controllasse quell’appartamento?“Penso che Dalla Chiesa e io facemmo il nostro dovere. Tra l’altro non toccava a me riferire alle autorità ma a Dalla Chiesa e io non so se il generale lo fece. Di più non potevamo fare. Riferimmo tutto ai nostri superiori gerarchici. Dirò di più: il generale, con lo scopo di dare man forte al comando generale dell’Arma, mi spedì a Roma. Vi rimasi dieci giorni durante i quali non mi fecero fare nulla. Passavo le giornate con le mani in mano”. Perché racconta questo episodio solo ora, dopo tanti anni?“Perché ho maturato la convinzione che sia giunta l’ora di spostare un po’ più avanti la ricerca della verità sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. E credo che la nuova Commissione d’inchiesta possa farlo. Se saltasse fuori ancora qualche piccolo pezzo di verità, sono convinto che verrà giù tutto”.Altri capitoli: Il mistero dei colpi sparati in via Fani Il memoriale in via monte Nevoso Il memoriale di via Monte Nevoso bis Il memoriale, Dalla Chiesa e Gladio Altri libri sul delitto Moro: - Doveva morire di Sandro Provvisionato e Ferdinando Imposimato - Il golpe di via Fani di Giuseppe de Lutiis - L'affaire Moro di Leonardo Sciascia La scheda del libro “Complici – caso Moro” di Stefania Limiti e Sandro Provvisionato.
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