Leggo sugli strumenti che ho lavorato come uno schiavo per tutto l'anno. Zero vita sociale. Zero donne, scludendo una parentesi pur piacevole ma breve. Lavoro, psicoterapia e palestra. In tutte le permutazioni possibili. Dovrei trasferire le domiciliazioni bancarie delle mie utenze domestiche sul nuovo conto. Ma posso farlo nel pomeriggio.
Sai quell'euforia di quando ti compri dei nuovi capi d'abbigliamento? Ci sono i saldi, ora piglio la macchina e mi vado a fare una passeggiata in centro.
Sotto casa lavori in corso. Sventrano la strada, per la terza volta nell'anno. Prima l'illuminazione stradale. Già non funziona più. Poi le fognature, che straripando per le alluvioni l'hanno resa navigabile per un mese. Adesso il gas. Si marcia a sensi alterni. A lternarli, un Playmobil in livrea rancione, con paletta rossoverde d'ordinanza e tutto il resto. Tempo di percorrenza 30 minuti, per un tratto di 2 chilometri.
Non sarà questo a scaturirmi pentimenti. Neanche gli stronzi che mandano sms dalla corsia di sorpasso ci riusciranno.
La radio scrausa della mia scrausa utilitaria salta rbitrariamente, alternando frammenti di Message in a bottle e le previsioni del traffico. La trasmissione è disturbata, visto che dei ragazzini m'hanno fregato l'antenna. Probabilmente per giocarci agli spadaccini. Per chilometri, ai bordi della tangenziale, volanti della polizia dicono “Adagio!” dai loro tabelloni elettronici. Ottimo consiglio. Senza, l'italiano rischierebbe di perdersi la visione di una macchina ferma col triangolo e il suo proprietario che parla al cellulare indossando il regolamentare gilet giallo fosforescente.
C'è il mercato. Subito mi raggiunge l'odore della frutta che prende il sole nelle cassette.
Ogni negozio si è organizzato con un suo questuante personale. C'è la zingara col bicchiere di carta, il mutilato, il vecchietto dei santini. L'africano invece è peripatetico. Mi aspetta al varco colla sua borsa piena di calzettoni. Ne ha vari campioni, nelle mani. Il calzettone di spugna: articolo irrinunciabile, in una torrida estate. Io temo lui. Egli per prima cosa mi sottoporrà al suo moderno saluto tribale: schiaffetto a mani aperte, pugnetto contro pugnetto, mani che toccano il cuore e poi non ricordo più. Nel rispetto di una procedura che ignoro. Non sono all'altezza, cannerò sicuramente il timing. Ma perché mi deve far fare la pallida figura del bianco?
“Ciao fratello, come stai?” “Bene scusa grazie devo scappare”, tenendo la falcata costante. “Almeno un euro per un caffè”.
Mi fermo e lo guardo. “Come, per un caffè? Un caffè con questo caldo, e questo dore di frutta che va a male? Non ci credo. Tu non useresti il mio euro per un caffè”.
Lo Sguardometro registra massima intensità. Il quadrante indica “Sguardo di uomo nero che colpevolizza il suo pavido sfruttatore bianco”. Uno dei motivi per cui le favole mettono in guardia i bambini dagli uomi neri.
“No fratello, hai ragione, non è per un caffè. Te lo dico, se prometti di non ridere.”
Lo prometto. “È per pagarmi gli studi. Sono iscritto a un corso privato di Laurea in Economia e Commercio di Calzettoni di spugna. Ti prego, comprami un paio di calzettoni. Non farmi andare fuori corso”.
Lui mi nsegue per un po'. Ma io, balzando di moncherino in moncherino, scappo più lesto.
Arrivo alla meta gognata. “Il paradiso del surfista”. Io che sono ateo e ho esperienze di surfista lontane e pisodiche, entro. Il commesso mi saluta con calore. Nessuno conosce i rispettivi nomi, ma chissà perché lui crede che un tempo eravamo amici, e adesso sono costretto a lmeno un pajo di minuti di conversazione ogni volta che arrivo nel suo negozio, e a sensi di colpa se me ne vado senza aver preso niente. Mi guarda le scarpe. Da skateboarder. Le mie sperienze di skateboarder sono meno episodiche, ma ncor più lontane. “Dove le hai prese? Sono quelle di Halo?” “Sì. Io manco sapevo che era. Mi sono disintossicato dai videogiochi 22 anni fa. Ho capito cos'era da domande tipo questa”. Quindi ci separiamo, colla promessa che gli avrei chiesto tutto quello che mi occorreva.
Tutto quello che mi occorreva erano capi della mia taglia. Dopo vari ngorghi trovo conferma alla mia teoria. È inutile andare per saldi. Non trovi niente. Se trovi qualcosa, non cianno la taglia. E se pure ce l'hanno, era meglio pagare un prezzo pieno pur di entrare a negozio vuoto e provare le cose con calma.
Al supermercato incontro una che conoscevo. C'è anche il ragazzo, conoscevo anche lui. Portano all'anulare sinistro degli anelli, che indicano che il tempo almeno per qualcuno passa davvero. Chiacchieriamo bene. Scopriamo di abitare vicini. Ci promettiamo di aggiungerci su di un social network.
Tornando a casa la temperatura dell'abitacolo mi fa temere per i miei surgelati. Corro come un pazzo. Non ne posso più. Voglio tornare alla base.
Nei miei progetti si nterpone una signora. Con tanto di nserti in pura plastica. Vasti e vari. Cosa se ne troverà nella bara, quando sarà ora di ridurne la salma? Essa ttraversa fuori dalle strisce, gli occhi proni sullo smartphone, immobile in mezzo alla curva. Io che vado fortissimo decelero rudemente, e questo a lei non sta bene. Stacca a fatica lo sguardo truccato e lo pone su di me. È una signora della zona Nord della città.
“Non si va così forte. Se c'era un bambino col pallone che attraversava la strada che facevi, lo mettevi sotto?”
“Signora. Lei non è un bambino col pallone che attraversa la strada. Lei è una signora rincoglionita che manda i messaggini stando ferma in mezzo alla curva, lontano dalle strisce”.
“Brutto pelato maleducato!”
“Bel pelato maleducato, vorrà dire”, omettendo le mie considerazioni sull'estetica delle sue chirurgie.
Metto su una pentola di ortaggi surgelati, tonno, salmone, cus-cus di kamut. Ci aggiungo cinque acciughe sott'olio, in luogo del sale. Un pizzico di alte mperature. Una spruzzata di curry e olio extra vergine di oliva. Mangio davanti al computer con sul monitor un vecchio fumetto dei Fantastici 4, in cui il Dottor Destino si allea col Teschio Rosso. Ne leggo 150 pagine, le altre 150 le leggerò un'altra volta davanti a una pentola con forse dentro la stessa cosa.
Vorrei prendere il sole. Il sole non vuol prendere me. Mi frappone una densa coltre di nubi. Mi rassegno a procedere con le operazioni on-line.
Ho tre computer. Uno per la navigazione. Uno per i progetti musicali. Poi un netbook, con cui vado a letto. La relazione più significativa degli ultimi anni. Ce n'è anche un quarto, con cui suonavo dal vivo l'anno scorso; ma se ricordi quest'anno ho lavorato come uno schiavo. Quel quarto non si tocca. Ha internet disinstallato. Forte della sua performanza musicale e del suo costo spropositato, obsolesce sulla scrivania.
Nessuno dei tre funziona. Mi hanno piantato, tutti nsieme. Questo rende difficili le operazioni di travaso bancario che mi accingo a compiere. Quello di nternet non si connette. Lo consulto solo per leggere le password tutte diverse che uso online. Il netbook non si avvia due volte su tre, però mi svela le grazie di intenet dai suoi dieci pollici. Mezzo per ogni finestra che devo tenere aperta.
Nulla va per il verso giusto. La burocrazia della nuova banca non coincide con quella dei fornitori di acqua, energia elettrica, gas, nettezza urbana, abbonamenti a riviste, telefonie mobili e fisse. Chiamo il primo numero verde. Ascolto tutte le tracce di un disco senza mai ncappare in un operatore organico. Rinuncio. Tento col secondo fornitore. Mi risponde un indiano, facendomi rimpiangere il long-playing di prima. È strano farsi parte attiva in uno scontro fra culture tanto diverse. Per adesso lui è solo uno piccolo fra i miei problemi. Se mai avessi discendenti, i suoi surclasserebbero i miei.
Il fatto è che ha ragione lui, scoprirò più tardi, e i suoi “pfui – colleghi” del numero verde sono davvero incompetenti. Seguendo le sue colleriche indicazioni almeno un'utenza l'avrò attivata.
Il resto domani. È ora di bere il the verde propedeutico agli allenamenti, fare pipì e andare.
Nella sua solitudine, aggiungiamoci il mio carattere apparentemente remissivo, come mi vede si squalifica. Nel senso che fa sé squalo, e me naufrago inerme. Io sto lì a fare i miei esercizi preparatori, sudando moltissimo e non potendo scappare. Lui mi circostanzia come la mina attorno all'ago del compasso. Finge di aumentare il proprio raggio, ma torna sempre a chiudersi verso di me. Può essere il fine settimana a Praga che sta progettando, se trova qualcuno con cui andare. Oppure il ribadirmi la sua pagina Facebook, “Eh, ma io non lo uso mai”, “Vabbè! Quando ce capiti aggiungime”. Oppure, l'organizzazione della cena di fine anno. O ancora, le sue operazioni al ginocchio. “L'artra volta a lezione ce stavano 'n sacco de ragazze!”. “Me devo comprà un tàbblet, tu ce capisci?”. “Oh! Ieri una che lavora ar magazzino co me ha menato ar Capo! Nun pòi capì checcasino! È arivata la polizia! Tutti che me chiamavano pe fasse raccontà!”. Egli è molto buono, e io mi sento molto in colpa a non sopportarlo quando si squalifica in modi tali. Certe volte però m'innervosisco. Forse m'innervosisco troppe volte - dovrei rifletterci su. Quelle volte provo a dirgli mentre mi parla “Mongoloide!” a voce sempre più alta, senza farmi sentire. Tanto qualsiasi cosa dica io, lui non ascolta mai.
Stavolta l'argomento è serio. “Na svorta, Vincè. Mò me scrivo a na facoltà universitaria. Me danno na Laura, capito come? Posso fa er Maestro sur serio. Certo ce sò materie, c'è Biologia, c'è Sport, c'è Fisica! Pure Fisica! Capito come? Io che ciò a Terzamedia! Però poi posso fà er Maestro a Tempio Pieno, basta cor magazzino. Na Laurea! Certo devo studià” ecc.
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“Basta così, tenente. Mi ridia il casco, quest'atmosfera pestilenziale mi ha fatto venire il mal di testa. Torniamo alla nave”.
“L'avevo avvertita, Capitano. La composizione dell'aria era respirabile senza conseguenze pericolose, purché per tempi non prolungati. E i rapporti mettevano in guardia dal permanere...”
“Ho detto basta. Avvii la procedura di rientro immediatamente. Io lo sapevo, me lo sentivo, che questo pianeta schifoso non era adatto alla vita”.