Magazine Società

Cento passi a Cinisi

Creato il 07 settembre 2010 da Liscadpesce

33 manifesto Questa sera, aggirandomi per la rete, mi sono casualmente imbattuto in questo articolo, risalente addirittura al 1993, scritto da Claudio Fava, il figlio di Pippo Fava; L’ho trovato sul sito de “I Siciliani”, il mensile fondato dal giornalista siculo e riportato in vita proprio dal figlio.

E’ un articolo riguardante Peppino Impastato, che mi ha colpito per l’attualità dei suoi contenuti (se non ci fosse la data difficilmente si potrebbe capire che è stato scritto ben 17 anni fa), e per la capacità dell’autore di cogliere un particolare, quello dei 100 passi, che solo con l’uscita del bellissimo film di Marco Tullio Giordana (“I cento passi” appunto, per chi non l’avesse visto lo consiglio caldamente) diventerà conosciuto ai più…

da "I Siciliani nuovi", maggio 1993

Dunque Peppino è morto quindici anni fa. Quindici anni esatti, l'otto maggio. Ne ammazzarono due, quel giorno: Aldo Moro a Roma; a Cinisi, Giuseppe Impastato. Dei due, Impastato è quello dimenticato. Lo scrivemmo già una volta sui Siciliani, ed erano trascorsi otto anni dalla sua morte. Ora gli anni sono quindici, e c'è il rischio di dover ripetere le stesse cose.
Un mese fa sono stato a Cinisi. Hanno messo una lapide sotto il balcone in cui abitò Peppino. Da quel balcone, da quella lapide, ci vogliono esattamente cento passi per arrivare al portone di Gaetano Badalamenti. Questa è la dimensione della vita in un paese di mafia, cento passi tra vittima e carnefice. Ci vuol poco a divorarli, quei cento passi. Ci volle poco, per Tano Seduto.
Don Tano oggi è in una galera degli Stati Uniti, condannato a trentasette anni per traffico internazionale di stupefacenti. Quindici anni fa invece Badalamenti stava nella piazza del suo paese (altri cento passi, risalendo il corso centrale). Stava lì, sotto i balconi del municipio che è un vecchio convento con le mura alte e bianche e un piccolo campanile appuntito. Tano Seduto dunque si sedeva laggiù, e aspettava che in consiglio comunale decidessero come lui aveva meticolosamente disposto: a chi le licenze edilizie, a chi il posto di netturbino, quali piani di fabbricazione far marciare, quali bloccare e così via.
Ho risentito le trasmissioni di Radio Aut (aut, non out: una radio di compagni che facevano su serio). Sul nastro c'era Peppino che parlava e imitava Tano Seduto e poi faceva il verso al sindaco di Cinisi e ogni tanto rideva e sembrava che si divertisse a raccontare le cronache del palazzo, gli appalti truccati, le licenze svendute, don Tano in piazza che benediceva... Loro, gli altri, non si divertivano affatto.
La storia è nota. Una sera lo caricarono in macchina. Lo portarono in campagna e lo legarono alla massicciata della ferrovia. Forse svenuto, forse già morto. Gli attaccarono mezza dozzina di candelotti di dinamite attorno al petto e lo fecero saltare in aria. Il giorno dopo, mentre i compagni di Peppino sfilavano davanti ad un capitano dei carabinieri per fornire generalità e alibi per la notte precedente, i quotidiani di Milano già titolavano su quel maldestro terrorista siciliano morto in un incidente, mentre tentava di far deragliare l'accelerato Palermo-Trapani.
La verità venne a galla senza fretta. La tirarono fuori i compagni di Peppino, faticosamente, tornando per molti giorni in campagna a cercare le tracce dell'ammazzamento, i luoghi dell'agonia, gli indizi, le prove, i segni. Un lavoro pietoso, umile. Un lavoro utile. Otto mesi dopo il procuratore Gaetano Costa, sulla base degli elementi raccolti da quei ragazzi, riaprì un caso sbrigativamente archiviato dai suoi colleghi. Ma non gli lasciano il tempo di chiuderlo: muore anche lui, ammazzato in una mattina d'agosto palermitano, due anni dopo. Muore anche Rocco Chinnici, giudice istruttore, l'altro magistrato che aveva tentato di dare anima a quell'inchiesta dimenticata. Poi, lentamente, la memoria si è sfaldata. Sono quindici anni, adesso.
Non sono trascorsi invano. E nemmeno Peppino è morto invano. Lo so, sono frasi buone per una lapide. Ma è la verità, almeno a Cinisi. Perché Impastato fu il primo a ribellarsi, e non solo alla mafia. Peppino si ribellò alla Famiglia, alle Famiglie, a quelle carezze ruvide sul collo che ti costringevano a crescere così com'erano cresciuti tuo padre e il padre di tuo padre. Quella di Peppino, per esempio, era una famiglia di mafia. Lo zio si chiamava Cesare Manzella, era un uomo piccolo e rotondo con un grande ventre, gli occhiali neri e un sorriso sprezzante. In tutte le foto c'era sempre quel sorriso da piccolo padreterno e le mani addormentate sulla pancia. Lo fecero a pezzi con una seicento carica di tritolo, quando Peppino era solo un bambino.
Faide di paese. Anche il padre di Peppino conosceva le regole, e aveva subito imparato da che parte bisognava stare. Badalamenti era amico suo, la domenica si incontravano al caffè, baciolemani don Tano, ci posso presentare mio figlio? ch'è bello stu picciriddu, e come si chiama? Peppino, si chiama, e bravo Peppino. Intanto cresceva, Peppino. Cresceva, ascoltava, masticava, capiva. Il primo comizio lo fece a diciassette anni e parlò per mezz'ora della nuova pista di Punta Raisi. Diceva che sarebbe servita ai trafficanti di droga, che quell' aereoporto - a un chilometro dal paese - era un luogo maledetto. Continuò: i comizi, i manifesti, la radio, Tano Seduto e le cronache di Mafiopoli, corso Luciano Liggio, i picciotti in consiglio comunale...
All'inizio suo padre non ci voleva credere. Poi gli amici di Badalamenti gli fecero vedere i volantini che scriveva quello sciagurato di suo figlio: la mafia dell'acqua, il mercato degli appalti, l'eroina... Il vecchio Impastato lo buttò fuori di casa tre volte. L'ultima, per sempre. Ogni tanto Peppino tornava, quando il padre non c'era: sua madre gli faceva trovare la vasca piena d'acqua bollente, la tavola apparecchiata, una cotoletta, un bicchiere di vino, una canottiera pulita, sbrigati figghiu mio che tuo padre ora torna...
Cento passi. E' stato un gioco, quella volta, per i picciotti di don Tano. Sono passati quindici anni e oggi Badalamenti è in galera. Ma non per quel delitto di paese, non per la morte di Giuseppe Impastato. Anche per questo la storia di Peppino va raccontata di nuovo.

Claudio Fava


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazine