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"Centomila gavette di ghiaccio" di Giulio Bedeschi

Creato il 06 settembre 2012 da Fioridilylla @c_venturini

Copertina di
"Centomila gavette di ghiaccio",
Giulio Bedeschi,
Mursia Editore

Mi consigliarono "Centomila gavette di ghiaccio" di Giulio Bedeschi, Mursia Editore, una mattina in piscina. Non so come, tirai fuori il discorso degli Alpini, del riscoprire le radici. Ogni tanto mi capita. Un amico mi disse: "DEVI leggere Bedeschi. Non sai quant'ho pianto. Ma è l'unico.". Così lo comprai. Non in ebook. In cartaceo. Se hai un nonno alpino della Julia, artigliere e responsabile di mulo, che ha fatto la guerra in Albania, in Grecia, in Russia ed è tornato a casa vivo, con ambo le braccia e le gambe, questo libro lo devi avere cartaceo. A modo suo, ti spiega da dove sei nata. Quali sono i tuoi geni, la tua eredità. E' uno di quei libri privati, che sottolinei, su cui appunti, su cui piangi, che impiastricci con le dita sporche di Nutella rincuorante, che nascondi. L'epopea delle Penne Nere durante la Seconda Guerra Mondiale. Questo è "Centomila gavette di ghiaccio". La storia di invasori che andarono - consapevoli - alla morte e che, contro ogni aspettativa, trovarono il modo di entrare nel mito e tornare a casa. Centomila soldati, una manciata di eroi, una fiumana di penne nere incapaci di lasciare quei campi di battaglia, quei compagni caduti, quel gelo assurdo. La storia di generazioni.
"Centomila gavette di ghiaccio" è il libro-anima di Giulio Bedeschi. Autobiografia con licenze letterarie, pubblicato nel 1963 dopo il rifiuto di sedici editori nostrani, questo romanzo vinse il Premio Bancarella nel 1964, ventun anni dopo l'inizio della sua composizione, avvenuta a partire dal 1945. Mursia Editore ha fatto sapere che nel 2011 codesto cult della letteratura di guerra ha venduto quattro milioni di copie. 
La storia prende il via sul fronte greco-albanese, nel 1941. L'alter ego dell'autore, il sottotenente medico Italo Serri partecipa agli ultimi scampoli della battaglia sull'antico suolo omerico. Conclusa questa campagna, il militare-autore, viene assegnato al III° Reggimento Artiglieria Alpina, nella divisone della Julia. Con loro, dopo un mese di vacanza, partirà per la famigerata campagna di Russia. Ciò che colpisce di più non è il racconto delle sanguinolente e devastanti battaglie, il cui esito è scontato per ogni lettore che riesca ad immaginare lontanamente la scena nella sua complessità. La disfatta è evidente, nonostante la resistenza e la tenacia mostrata a più riprese, oltre ogni ragionevole speranza di vittoria. Quello che colpisce è lo stile narrativo, intimo, poetico, silenzioso e roboante; un moto d'anima, che si può comprendere solo ascoltando una delle più tipiche canzoni degli Alpini: 

Si tratta di "Nikolajewka". L'ultima battaglia in Russia, combattuta nel 1943, alla fine di gennaio. L'epilogo della morte. Una parola ripetuta nella poesia che evoca paesaggi, desolazione, silenzio, vicinanza; superstiti in una tragedia senza fine e senza scopo, abbandonati a se stessi e senza niente, gli Alpini fecero il possibile per ubbidire ai comandi, spesso assurdi, assassini, indifferenti. 
"Centomila gavette di ghiaccio" dedica una parte molto corposa alla Campagna di Russia, sia per la sua durata, sia per la sua intensità drammatica, dalla cui conclusione e ritirata inizierà una nuova fase per l'Italia e per la guerra in Europa. Il gelo impera in parole infuocate dal ricordo. E così li vedi, gli Alpini, a combattere senza scarpe o con i corpi congelati, mutilati. Senza munizioni, senza cibo, senza la benché minima idea del piano strategico che manovra il loro incedere alla cieca nella neve, a quaranta sotto zero, con muli come unico mezzo di trasporto e cibo estremo in caso di decesso. Li vedi camminare in fila indiana; li senti battere i denti; vedi il ghiaccio incollare la barba e il cappotto e vedi le spennacchiate penne nere che tratteggiano la via e portano ondate di rispetto, secondo le parole dell'autore, ovunque si fermassero. Entri nelle isbe immerse nel nulla della steppa e temi i carri armati russi, l'accerchiamento, l'essere fatto a brandelli da un fuoco senza pari. E' come vedere "Band of brothers". Amici, commilitoni, famiglia. 
E poi la senti. La voce. Quelle parole dall'oltretomba, che raccontano ancora e ancora e ancora, dieci piccoli aneddoti, gli unici che la mente può tollerare di ricordare, dimenticandosi del naufragio, delle piccole battaglie, dei lunghi tragitti nei carri bestiame, del pericolo imminente. Eccola la voce dei ricordi. Di quei rari momenti in cui la coscienza del nonno affiorava sulla Terra solo per evocare compagni perduti lungo il Don. E allora ti chiedi che cosa vuol dire essere un eroe. E allora ti chiedi se saresti mai riuscita a sopravvivere intera (fisicamente) a cotanto sacrificio e sforzo. E ti guardi e comprendi, ti vedi camminare con la neve alle ginocchia, una neve immaginaria, purulenta, putrida. E capisci che oltre i traumi, nel miscuglio di dna, quel coraggio ti è stato tramandato.
Poi leggi e rileggi le parole d'amore destinate al cappello con la piuma nera, quella gavetta che conteneva il ghiaccio, unica fonte di acqua, unica fonte di cibo, unica fonte di vita e capisci come il senso di appartenenza e di famiglia si modifichi in certe situazioni estreme. Capisci anche l'attaccamento tenace a un oggetto - e pure questo ti è stato passato nel sangue - che nulla ha a che fare con l'essere materialista o incapace di donare. Ci sono oggetti che ti salvano la vita, che evocano storie, che alleviano i traumi. Per gli Alpini è stato il cappello. Per gli uomini è stato il mulo. Storie di campagnoli, giovani ragazzi che chiamano la mamma in continuazione. Non la ragazza, non la zia, non la prostituta. La mamma. Una parola come un'eco, la pronunci e sei lì, accoccolato fra due seni grandi, pieni di nutrimento, pieni d'amore, pieni di salvezza eterna. Mamma, mamma, mamma, mamma. In ogni notte, lungo ogni trincea, dentro ogni giaciglio congelato. Mamma, mamma, mamma. Una nenia che si intreccia alle più classiche delle canzoni. Un aggancio perpetuo al momento del crak interno, quel frantumarsi intollerabile, quella bestia selvaggia tenuta a bada da confini di corda elettrica intessuta da episodi definiti nel dettaglio, misero, di eventi che non si possono mettere in discussione. Perché è trauma, perché è sopravvivenza. Perché non si può dimenticare. 
"Centomila gavette di ghiaccio" di Giulio Bedeschi è come una lapide incisa al tempo dei Romani. Ricorda. Per sempre.

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