Per quale ragione Pinocchio ci appare sempre di più come un capolavoro? E per quale motivo, da un pezzo a questa parte, ci si adopera intorno al burattino di Collodi con tanto spreco d’interpretazioni capziose? In ogni fiaba si nasconde una foresta di simboli, sta bene.
Ma guai a sottrarre la storia di Collodi al dominio della letteratura infantile, e soprattutto a quel gusto, che doveva essere vivissimo nel Collodi, dell’ispirazione un po’ oziosa, mossa dal puro piacere di una scrittura fantastica, esattissima e vernacolare, in qualche modo perfino « automatica ». Spesso il libro di Collodi da un’impressione di ghirigoro, di un esercizio di penna miracolosamente smentito dalla facilità inventiva. La freschezza di un segno sempre pulito, la svogliatezza di una mano sempre leggera, guidano lo scrittore senza che egli sappia con precisione quale peripezia, quale «figura» si stia disegnando sul foglio.
In questo senso è un errore avvicinarsi a Pinocchio come a un insieme compatto. Il libro di Collodi si comporta all’inizio, fino all’impiccagione del burattino da parte degli assassini, diversamente che nella sua progressione. Fuori da intenti pedagogici, Collodi avvia il racconto sulla spinta di un’idea semplicissima: l’idea che dappertutto, anche in un pezzo di legno, abiti e risieda la vita. È una trovata che si accorda genialmente, più di qualsiasi altra, col sentimento infantile, fatto di meraviglia, per così dire, « mistica », e così ricco di vita da prestarla d’istinto anche alle cose che non la possiedono. In quella « vocina sottile sottile » che udiamo uscire per la prima volta dal legno di Geppetto, « Non mi picchiare tanto forte », è già in germe tutto Pinocchio, col suo vestito di carta fiorita, il suo cappelluccio, la sua malagrazia disarticolata, col suo affascinante « non-stile ». Di colpo, ci troviamo al centro della creazione di un personaggio: nella grazia di quella voce, nel suo candore, nella sua malizia lamentosa, nel suo formidabile e inconsapevole humour ci sono già i futuri lazzi del burattino che sta nascendo, i suoi sberleffi innocenti e crudeli. Prima di nascere, Pinocchio ci ha già detto il motivo della sua canzone: è nato e fatto per la vita, lui di legno.
Era nato come marionetta destinata a cantare, ballare, tirar di scherma e fare salti mortali. Una marionetta come le altre, ma animata da vita propria. Appena intagliato, il naso del burattino cresce senza motivo, per puro istinto di vitalità. Più tardi, accordando la sua invenzione con la pedagogia, Collodi glielo allungherà in omaggio a precetti di morale corrente. Ma per nostra fortuna, il pedagogismo di Collodi « si rivela nella propria contraddizione » (come ci avverte il prefatore della più recente edizione del capolavoro, Giovanni Jervis) offrendoci in verità un Pinocchio eternamente dialettico, diviso senza possibilità di soluzione tra l’universo del piacere e il mondo degli adulti, tra l’attrattiva dell’infanzia e il principio della realtà. Atteggiare questa costituzionale contraddizione come « storia di una catarsi », come « contrapposizione fra gli errori del discolo e la sua redenzione in extremis »„ è un errore che toglierebbe qualcosa a quell’assoluto che è Pinocchio, alla sua natura squisitamente « unpredictable » (è la sola definizione che Pinocchio sopporti).
È vero che lo Jervis avrebbe potuto approfondire le sue intuizioni, brillantissime (la « dimensione tragica », la « caricatura » di una libertà che si lega fatalmente a un destino di sofferenza), nel senso che Pinocchio ha tutta l’aria di una marionetta meravigliosa che non vuole crescere, perché la vita non può desiderare di crescere, può desiderare solo di yivere. La condanna a ripetersi del burattino, la sua incapacità a superare la propria natura, è l’incapacità della vita a costruire qualcosa, secondo durata, senza tradirsi. Se c’è un mondo dal quale Pinocchio è veramente escluso, senza remissione, questo è l’idea della vita come crescita su se stessa, come Storia.
« Com’ero buffo, quand’ero burattino! » Un tratto palazzeschiano, che non si sottolineerà mai abbastanza nella fantasia di Collodi, era già apparso a quel gran lettore che era Pietro Pancrazi. Ora vedo con piacere che facendo giustizia di tanti errori, lo Jervis si trattiene dal sottrarre a Pinocchio il suo ossigeno naturale, quel « senso domestico e vicino », quell’aria casalinga, tra tanti portenti (basti l’esempio del Pescatore verde), che appunto piaceva al Pancrazi. Insomma la Toscana granducale, sul punto di somigliare, senza volerlo, all’Italia umbertina, coi suoi assassini ma anche coi suoi abecedari, e con la sua « morale anti-eroica ». Bisogna sempre guardarsi dal fare di Pinocchio un emblema. Si corre il rischio di ucciderlo prima ancora che ci pensi lui stesso, diventando un bambino come gli altri.
« Com’ero buffo quand’ero un burattino! » Eppure è in questa chiusa che si nasconde il significato ultimo del libro. Anche questa è una frase-spia, che ci mette sotto gli occhi, di colpo, un aspetto di Pinocchio che abbiamo sempre presente e che insieme ci sfugge di continuo: la sua diversità. Pinocchio è essenzialmente « diverso ». Eppure nessuno più di Pinocchio desidera essere come gli altri. Condannato alla diversità, non la accetta, ma la combatte, non si da mai per vinto, A distinguersi tutti sono capaci; ma essere diversi nella tensione opposta, cercando di confondersi nella norma, di diventare simili a tutti, questo è commovente e veramente poetico. Questa è la simpatia irraggiungibile di Pinocchio.
Quasi senza saperlo, Collodi ha chiuso il suo libro con la morale più dolorosa, e con inconscia grandezza. È una verità triste che per essere pieni di vita si debba pagare la propria vita con un ruolo atroce. Quando si è vivi, si è buffi, non si è mai « persone serie ». Con una di quelle loro strane decisioni prese una volta per tutte, gli dèi hanno voluto imporre questa legge: ci offrono il dono più bello in cambio di non essere mai presi sul serio, in cambio di farci ballare, saltare, fare capriole davanti a tutti, per la gioia e la pietà di tutti, come « burattini ».Cesare Garboli
(da La stanza separata, Mondadori, 1969)
Da riscoprire è Cesare Garboli la cui prosa è eminentemente narrativa, ricca di suspense, di emozioni letterarie. Un esempio? Il libro Poesie famigliari, che è un commento a una serie di poesie di Giovanni Pascoli. O, se preferite, la raccolta Scritti servili, ma anche lo scritto su Matilde Manzoni e il suo Journal.