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Cesare Prandelli: «Ci vogliono ore e ore per imparare a giocare a pallone. Le scuole calcio non bastano, ai bambini servono più spazi»
Creato il 26 marzo 2013 da MariellacarusoCesare Prandelli è un commissario tecnico che si dà poche arie. Per rendersene conto basta incontrarlo in un contesto insolito. Per esempio alla libreria Feltrinelli affacciata sulla piazza del Duomo di Milano, dove qualche qualche giorno fa è intervenuto per presentare “Il calcio dei ricchi”, l’ultimo libro del giornalista sportivo e opinionista, Mario Sconcerti. Un’occasione per parlare diversamente con il c.t. azzurro di calcio, di ragazzini che devono divertirsi a giocare, di nuovi italiani e del suo giocatore più talentuoso, Mario Balotelli.
Il calcio è, veramente, destinato a diventare soltanto dei ricchi?
«Se leggiamo i numeri sì. Per questo dovremmo riportare un po’ tutti alla realtà».
Che tipo di realtà?
«Quella che se immaginiamo un calcio dei ricchi, quest’ultimo sarà un mondo per privilegiati. Quindi i ragazzi devono capire che sono di passaggio, perché questa sfera di privilegi non gli apparterrà per tutta la vita. Per questo devono approfittarne, tra virgolette, cercando di sfruttare al meglio l’opportunità che dà loro la vita senza buttarla via».
A proposito di ragazzi e di opportunità, nella sua Nazionale c’è spazio per i “nuovi italiani”, da Mario Balotelli a El Shaarawy. Secondo lei l’Italia è veramente pronta? Non sembrerebbe dai cori che si sentono negli stadi
«Secondo me questi ragazzi sanno di avere delle responsabilità e ci si stanno calando nella maniera giusta. E’ difficile che la Nazionale possa essere una portatrice di modelli, ma di sicuro può essere un esempio. Chi indossa la maglia azzurra è tenuto a mantenere comportamenti corretti e rispettosi. E’ soltanto in questo modo che si può diventare credibili ed essere d’esempio per gli altri».
Quindi il codice etico che lei ha adottato in Nazionale è confermato senza alcun ripensamento?
«Assolutamente sì. Non c’è spazio per chi non adotta comportamenti che non sono in linea con l’etica».
Oggi se un bambino vuole giocare a calcio al genitore non resta che iscriverlo a una scuola calcio, rigorosamente a pagamento. Lei da genitore, o da nonno qual è diventato da poco, che farebbe?
«Sono nonno di una bambina (afferma sorridendo, dando quasi per scontato che le bimbe non giochino, ndr). Però è vero, oggi non ci sono più gli spazi in cui fino a qualche anno fa si poteva giocare liberamente a pallone. Nei parchi non si può giocare perché si disturba e anche gli oratori stanno via via cambiando la loro offerta per il tempo libero dei ragazzi. Secondo me sarebbe fondamentale il recupero della funzione degli oratori che, per quanto mi riguarda, sono stati dei riferimenti importanti. Adesso per i bambini è tutto diverso. Ci sono tante scuole calcio ma, anche avendo economicamente la possibilità di farle frequentare ai propri figli, quelle poche ore settimanali non bastano a soddisfare l’esigenza di un bambino che ama giocare. Io ricordo che giocavo ininterrottamente per ore e ore all’oratorio. Così si impara».
Lei sta rimarcando la parte ludica del gioco, fondamentale nello sviluppo di un bambino che magari sogna di diventare un campione, ma senza mai dimenticare di divertirsi. Spesso, però, capita che i genitori si comportino come se avessero in casa un piccolo Maradona…
«Il vero problema dei bambini che giocano al calcio sono i genitori. E’ molto difficile ammetterlo, ma io nella mia vita da allenatore ho sempre avuto i maggiori problemi a confrontarmi coi genitori piuttosto che coi ragazzi che sono molto più maturi di quello che noi adulti possiamo immaginare».
A inizio della stagione calcistica 2012/13 la scuola calcio della Polisportiva Ponzano, a Empoli, espose un cartello che recitava: “Chi pensa di avere un figlio ‘campione’ è pregato di portarlo in un’altra società”. Ironia toscana?
«Un po’ (sorride). Però è un concetto completamente condivisibile. Nelle squadre in cui io ho lavorato magari non abbiamo esposto cartelli, ma l’abbiamo detto direttamente ai genitori. Il problema è che certi genitori, perché non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, caricano sulle spalle dei loro figli troppe aspettative e i ragazzi non hanno il tempo di crescere e di sbagliare, perché è giusto che abbiano l’opportunità di sbagliare e di correggere gli errori. Così diventa difficile farli crescere, perché si perde l’idea che per arrivare occorrono anni di sacrifici».
A proposito di crescita e di errori, lo dà un consiglio a Mario Balotelli?
«Mario deve soltanto ascoltare le persone che gli vogliono bene sul serio. Adesso che è tornato a Milano, vicino ai familiari sarà più facile. Però chi ascoltare e cosa fare sarà lui a deciderlo. Il suo destino è lui ad averlo in mano».
(Mia intervista pubblicata su Stop 11/2003)
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