Ci sono dei periodi della vita in cui ci si sente come perseguitati dalla sfortuna.
Sembra in quelle occasioni di essere sotto l'influenza di una cattiva stella, o, se si vuole, di qualche forma di malocchio.
Pazienti ricoverati per patologie all'apparenza non gravi che ti sfuggono dalle mani e muoiono senza che neppure tu riesca a comprenderne il motivo; operazioni che hai fatto centinaia di volte che inspiegabilmente vanno male; malati che non si risvegliano più dopo l'anestesia.
Sono questi i periodi in cui l'autostima vacilla e ci si sente come dei nani di fronte ad una diga che si sta sgretolando e ti cade addosso.
Alla sera vai a letto con il cuore pesante e non riesci a prendere sonno; il cuscino diventa duro come il legno, le lenzuola ruvide come la cartavetro; ti giri e rigiri nel letto, il cuore batte forte e te lo senti in gola.
La mente non trova pace e non vuole abbandonarsi nelle braccia di Morfeo: che cosa avrò sbagliato? Cosa avrei dovuto fare di diverso? Sarebbe stato meglio che non operassi?
Al mattino ti alzi spossato e confuso; ritorni in ospedale dove ti ritrovi davanti gli stessi pazienti complicati, quelli che non stanno andando come vorresti.
Essi ti guardano a volte disperati, quando toccano con mano che loro condizioni generali peggiorano; a volte speranzosi quando vedono un tubo che non dreana più pus o altro materiale cattivo dall'interno del loro corpo; tutti comunque guardano a te con fiducia, con un sacco di attese e di aspettative, perchè tu sei il dottore bianco e quindi devi risolvere le loro situazioni.
A volte ti senti sopraffatto e pare che la forza interiore ti abbandoni; non ce la fai più ad essere sempre il punto di riferimento finale: vorresti avere qualcuno a cui riferire i casi che non sai gestire o quelli in cui il decorso diventa irto di complicanze.
Ma sei solo e sei in posizione apicale.
La decisione ultima è sempre la tua, è talvolta questo pesa davvero come un macigno sul cuore.
Spesso, quando un malato mi muore subito dopo un intervento per cause che non mi so spiegare, io mi impongo di dare di persona la notizia ai parenti: una specie di "catarsi" o di "autoflagellazione" che comunque in genere mi fa bene... mi serve quando i parenti non capiscono e mi trattano male, perchè mi ricolloca in una posizione di umiltà; mi fa molto bene quando (come mi è successo oggi) si dimostrano riconoscenti e mi ricordano che "il medico cura, ma solo Dio può decidere quando guarire e quando no".
Quando le complicazioni si rincorrono una dietro l'altra, mi viene da pensare chiaramente che anche questo fa parte del nostro mondo ontologicamente imperfetto: invecchiano le case ed infine crollano se non si fa manutenzione; le auto vanno bene finchè sono nuove, ma poi cominciano a mostrare i denti cattivi, ed un giorno o l'altro andranno rottamate.
Noi medici siamo un po' come i muratori od i meccanici:cerchiamo sempre di riparare i guasti; a volte ci riusciamo ed altre no...ma avere a che fare con una vita umana porta con sè sofferenze, angosce e sensi dicolpa indicibili quando la riparazione non riesce.
"I fallimenti del medico sono sepolti sotto terra" dice un cinico proverbio, ma io penso che siano sepolti anche nel profondo del cuore del medico stesso che ogni volta perde qualche anno di vita insieme al paziente che è andato in Paradiso.
E poi c'è la tentazione di scoraggiarsi: siccome questo intervento è andato male, io non mi sento più di farlo... eppure ne hai fatti centinaia prima, ed erano andati bene.
E se cedo a questa tentazione,ma quante persone potrebbero non beneficiare dalle mie competenze mediche e chirurgiche!
Quante persone potrebbero morire non perché l'intervento è andato male, ma perchè non è stato fatto?
Ho in reparto una ragazza di 25 anni che ho già operato tre volte: sembrava una gravidanza extrauterina, ed invece in addome ho trovato materiale necrotico che ho raccolto e mandato per biopsia.
Era un coriocarcinoma: un tumore molto maligno.
Ora questa ragazza è disperata perchè il materiale necrotico in addome si riforma sempre e continua a causare deiscenza della ferita che si riapre completamente ad una settimana dall'intervento precedente.
Lei mi guarda implorando ogni volta che mi avvicino al suo letto.
Io cerco di fare buon viso a cattiva sorte, ma in realtà non so più cosa fare per lei.
Nel reparto uomini ho un uomo operato di tumore allo stomaco; anche lui è stato "riaperto tre volte", ma la sua situazione peggiora: stasera mi ha chiesto se lo vedevo meglio.
Io ho mentito e gli ho detto di sì, ma so che domani non saprò cosa dirgli quando lo troverò peggiorato.
Queste sono un po' le mie angosce degli ultimi tempi.
E' un momento duro, pieno di complicazioni, di dolore e di sconfitte.
Ho bisogno di forza e di tanta preghiera per non cadere nella trappola dello scoraggiamento e della paralisi emotiva.
Fr. Beppe Gaido, medico chirurgo a Chaaria (Meru-Kenya)
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)