Adamo ed Eva cacciati dal paradiso terrestre, prima e dopo il restauro
Quando nel 1989 furono rimossi i ponteggi e i teloni che nascondevano alla vista la volta della Cappella Sistina e furono mostrati i risultati dell'opera dei restauratori, fu detto che "ogni libro su Michelangelo dovrà ora essere riscritto".In effetti quello che emergeva una volta rimossa la patina di sporco e nerofumoaccumulatasi nel corso dei secoli era un pittore distante le mille miglia dal clichè dello scultore frustrato, interessato soprattutto a masse e volumetrie e poco attento agli aspetti coloristici: agli occhi meravigliati dei visitatori si mostrava ora una gamma apparentemente infinita di azzurri, di verdi e di gialli, graduati con sapienza per tener conto degli effetti dovuti alla necessaria lontananza degli affreschi dagli spettatori. Come era inevitabile di fronte a risultati tanto radicalmente diversi da tutto quanto era stato fino a quel momento vulgata comune, ci fu chi giudicò che i restauratori si fossero spinti troppo oltre, che questa Sistina in technicolor non fosse il vero Michelangelo.
Non ho evidentemente nessuna competenza per entrare in una tale querelle se non a titolo puramente personale: e mi limito quindi a dire che a me questi colori accesi, vividi, cangianti, questo senso per il cromatismo che quasi riallaccia la pittura di Michelangelo alle campiture di colore puro della tradizione bizantina sembra di un'infinita suggestione.
La si pensi come si vuole in merito, rimane il fatto che in un fissato istante l'opera oggetto di restauro sarà sempre com'era oppure com'è, che le scelte del restauratore - per quanto egli voglia essere cauto e conservativo - sono in larga misura irreversibili.
L'immaterialità della musica porta con sé anche questo vantaggio: interpretazioni diverse possono coesistere senza interferire l'una con l'altra. Possiamo ascoltare il Beethoven di Furtwängler ma anche quello di Toscanini, lo Chopin di Rubinstein ma anche quello di Horowitz.
Se in particolare volgiamo lo sguardo alla storia dell'interpretazione delle sinfonie di Brahms, emerge chiaramente una corrente largamente maggioritaria che all'ingrosso potremmo definire elegiaca: dalla cosmica malinconia leopardiana di Furtwängler, alla gotica compunzione di Klemperer, al rimpianto soffuso di luce dorata delle letture di Karajan, alle nobili meditazioni di Giulini si tratta di letture che, pur molto differenziate per premesse e per esiti, hanno in comune un approccio basato su tempi dilatati, sonorità dense e massicce, uso dei rallentando per sottolineare i momenti di maggior tensione.
Non che siano mancati tentativi di rendere il sinfonismo brahmsiano in maniera più drammaticamente tesa e movimentata, come testimoniano (tra gli altri) i cicli di Toscanini e Bruno Walter: ma per ragioni probabilmente imperscrutabili sono state tutte operazioni sempre rimaste un po' ai margini, incapaci al fondo di scalfire questa immagine malinconicamente, nebbiosamente autunnale delle sinfonie di Brahms.
C'è da sperare che maggior fortuna arrida all'integrale sinfonica brahmsiana appena uscita per Decca e che vede protagonisti l'orchestra del Gewandhaus di Lipsia diretta da Riccardo Chailly.
C'è da sperarlo perchè, esattamente come per il restauro della Cappella Sistina, l'approccio di Chailly rivela un'immagine di Brahms quale forse non si era abituati a frequentare. Il Brahms di Chailly non è meno drammatico o più rassegnato di Beethoven: quello che cambia nei cinquant'anni circa che separano la Nona di Beethoven dalla Prima di Brahms è l'argomento, il tema del dramma. Esso in Beethoven scaturisce dalla tensione fra volontà e materia, fra il mondo interiore e quello esteriore, nella lotta che si svolge tra materia e spirito. In Brahms, e questo aspetto viene colto da Chailly con grande lucidità, la scena del dramma è tutta interiore: il conflitto che lo genera è tra il dovere e il poter essere, fra le forze che si ritiene necessario avere e quelle che si stima di avere in realtà. Cambia - ripeto - la scena, ma non l'intensità delle passioni o l'impeto del dramma. Non che Chailly neghi o depotenzi i momenti di elegia e lirismo, e basta ascoltare la resa dell'Andante sostenuto della Sinfonia n. 1 o del Poco allegretto della Sinfonia n. 3 per convincersene. Ma il suo Brahms acquista colori più nitidi, contorni più netti, luci più cangianti di quanto di solito si ascolta.
E' un'interpretazione con cui si può essere o no d'accordo (e che personalmente trovo irresistibile) , ma che in ogni caso ha il grande pregio di un'originalità che non scade nela provocazione fine a sé stessa perchè si coglie in maniera evidente il genuino desiderio di Chailly di condividere gli esiti della sua riflessione con chi lo ascolta.
Insomma, per quanto mi riguarda questo ciclo brahmsiano conferma il momento di straordinaria maturità artistica e intellettuale a cui è giunto Chailly, superbamente coadiuvato da una delle più perfette compagini orchestrali al mondo il cui meraviglioso sound è catturato da una registrazione davvero allo stato dell'arte.
Furtwängler e Karajan continuerò a tenermeli stretti. Ma queste di Chailly si inseriscono in un numero veramente esiguo di interpretazioni capaci di indicare, convincentemente, vie nuove.