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Con un frigorifero posseduto come protagonista del film, verrebbe quasi da etichettare a priori un lavoro in un grottesco funzionale alla comicità, a quel tipo di ironia con cui spesso fanno follie i giapponesi (il filone dello Sushi Typhoon) o, almeno una volta, certe espressioni del cinema di Hong Kong nei suoi momenti più pazzi e incontenibili, e ci si ritroverebbe giocoforza con un pregiudizio sfalsato o addirittura, peggio, aggravato dalla nazionalità d’origine, le Fillippine, che pur producendo una buona quantità d’horror (la saga di Shake, Rattle and Roll ha raggiunto i quattordici episodi), vuoi per i budget risicati vuoi più che altro per una certa indipendenza di arti e mezzi, raramente ha raggiunto risultati da ricordare, e si troverebbe quindi, con un Rico Maria Ilarde, che ha già un curriculum di certo rispetto nel genere, in una scomoda posizione di inseguitrice, di copiatrice, di enorme ritardo laddove altri hanno ovviamente già esplorato, creato e detto, se non tutto, molto di quello che si poteva dire. Ma Pridyider di grottesco non ha alcun elemento (se non un certo sarcasmo citazionista nella parte iniziale), anzi, il suo frigorifero posseduto, pur con basi dozzinali e una genesi che altrove darebbe poche, pochissime credenziali a un horror così impostato, possiede un’inaspettata forza creativa che rimanda, per estro visivo e per dovute ma felici limitazioni di mezzi, a certe disturbanti intuizioni del cinema di Cronenberg e Carpenter.
La bestialità che si cela all’interno dell’enorme cassa frigorifera genera incubi gore di ottima ispirazione, e al di là di prevedibili ma riusciti squarci di organi e tranci di carne umana, tra viscidi tentacoli, mani intelligenti e varie mostruosità dotate di zampe e artigli, ciò che offre la cucina della bella protagonista è un bel pastone ghiotto di immaginario truculento e sanguinoso. L’effettistica è quindi elemento primario e, seppur non dominante, è chiaro come il regista/sceneggiatore punti sugli assalti luridi e violenti del frigorifero per creare quell’impatto altrimenti del tutto assente. La pellicola è infatti poco interessante, la vicenda è banale ed è gestita superficialmente tra le indagini di Tina sul passato dei suoi genitori, la telefonatissima storia d’amore con l’amico d’infanzia ritrovato e le irritanti intrusioni ironiche delle due vicine di casa – Pridyider è di per sé un film molto povero, più di sostanza che di relativo budget, con attori legnosi e situazioni create per semplice necessità di far mandare avanti la storia: c’è quindi poco mordente ma ciò non significa che il film sia oggettivamente brutto, anzi, c’è molto, molto valore negli spunti visivi, nell’atmosfera marcissima, nelle suggestioni sanguinolente, e naturalmente nel piatto di creatività offerto all’interno del frigorifero infernale.
È però importante sottolineare come la parte finale sia capace di ribaltare i tanti aspetti negativi per l’insieme di cadaveri, scheletri, pantani, acquitrini putridi e una “battaglia” conclusiva davvero ben gestita, il tutto abile a richiamare atmosfere lovecraftiane nei suoi sotterranei impossibili e che conducono alla pazzia. Pellicola quindi interessante, con tanti difetti strutturali e una certa mancanza di ritmo da una parte della bilancia ma con una notevole estetica horror gore dall’altra, dategli una chance, al massimo potete sempre spegnere dopo la canonica mezz’ora di prova.
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