Non è la cronaca di un fatto avvenuto.
Rispondeva così Flannery O’Connor a chi le chiedeva di definire cosa sia un racconto. E questo complica parecchio le cose, per chi inizia.
In realtà, le semplifica. Basta avere il giusto sguardo.
E la giusta ambizione. Insomma: se scrivere è semplicemente fare la cronaca di quello che è avvenuto, a me verrebbe da sbadigliare. Perché dovrei raccontare qualcosa del quale conosco già il finale. Non si tratta di una barzelletta. Ecco: la mia idea è che molti immaginino la scrittura di un racconto come una barzelletta che dovrà smascellare dalle risate chi ascolta.
Se perciò il tuo scopo è scrivere barzellette, va bene. Puoi continuare. Conosci il finale, io che leggo no, e alla fine avrò guadagnato una risata. Mica poco.
Per tutto il resto, sapere come va a finire non è una buona idea.
Se non ho la più pallida idea di quale sarà il finale, oppure che cosa ci sarà nella pagina seguente, mi sfrego le mani. Anzi: la pagina bianca (“E lì, adesso, che ci metto?”) mi sfida. Mi rincuora. Non so cosa devo infilarci, e qui c’è un mucchio di divertimento. Chissà cosa combinerà questo personaggio matto come un cavallo.
In un caso del genere, sarò sorpreso dalla piega degli eventi e se sono bravo, pure chi legge mi seguirà e sarà ugualmente sorpreso. Poi magari il lettore potrebbe chiedere:
“È autobiografico, vero?”
No.
Mai.
E se hai poche idee, segui il consiglio di Raymond Chandler:
“Se non sai come andare avanti, fai entrare un tipo con la pistola spianata. Funziona sempre”.
È vero!