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Che cosa si impara con le revisioni

Da Marcofre

Risposta secca: un mucchio di cose.
Da alcune settimane sono impegnato nella revisione di questi misteriosi dieci racconti. Come ho già spiegato in passato, la revisione procede bene (secondo me), perché ho la fortuna di poter contare su una persona che legge quello che scrivo (e ricambio, certo).

E critica. Indica cosa funziona, cosa zoppica.
È una formidabile palestra. Che cosa insegna la revisione?

  • Umiltà. Buona parte degli esordienti non accetta alcuna critica a proposito di quello che scrive, perché è ottimo. Un capolavoro che pagina dopo pagina, diventa sempre più capolavoro.
    A costoro dico: Bravi, continuate così. Chi avrà talento potrà avere a disposizione più spazio.
  • Scrittura efficace, e basta. Quando si scrive la tentazione di infilare qualcosa di che renda più efficace la narrazione esiste eccome. Un intercalare, un modo di dire… Piccolo segreto (di Pulcinella): non esiste la scrittura più efficace. O lo è, oppure non lo è. Quando un altro paio d’occhi ti fa vedere che certe parole stanno sulla pagina solo a occupare spazio, ti rendi conto che lo “zac” (il taglio) è sempre prodigioso. Sempre.
  • Non ne sai mai abbastanza. Magari si è esperti in armi da fuoco. In motori di ricerca. Però scivoli su dettagli piccini piccini. Un paio di scarpe. Un prezzo. Un dettaglio che cogli ma non nella luce giusta: perché ignori.
    Non incrina (forse), la storia però ne turba l’atmosfera. Un po’ come quando si legge e all’orecchio giunge il suono della goccia che cade nel lavandino, perché il rubinetto non è serrato perfettamente. Infastidisce, soprattutto perché è così minuscolo.
  • Il refuso resiste, sempre. Refuso, non errore di grammatica o sintassi. Ho capito questo: puoi rileggere le frasi quante volte vuoi, ma alla fine succede qualcosa di strano. Leggi senza vedere. Sei troppo coinvolto nella storia e non ti accorgi di “un bambina”. Oppure di “uno campo”.
    Sì ti senti un poco imbecille, però accade e non c’è niente da fare. Devi solo incassare. Poi magari incontri il professorone che dice: “Ah, ah, ah! Combini questo e vorresti scrivere? Ah ah ah!”. La migliore risposta: “Ma tu, gli originali di Dostoevskji li hai mai letti? No? E allora che ne sai?”.
  • La scrittura è un apprendistato che dura una vita. Si migliora per fortuna; ma se scrivi e hai qualche ambizione (e “ambizione” non vuol dire successo e denaro a palate), ti rendi conto che non arrivi mai a sapere. Migliori certo, l’occhio diventa più esperto, riesci a cogliere sfumature che sino a sei mesi non scorgevi nemmeno col cannocchiale. Però non c’è un traguardo, un capolinea.
    Secondo me, anche se hai un Nobel, quando inizi a scrivere una nuova storia è come se fosse la prima. Hai con te i dubbi e le incertezze di sempre; non perché sei un incapace. Ma perché vuoi scrivere qualcosa che rimanga dopo che te ne sarai andato. E vuoi che sia solido, che duri.
  • È bello. Quando una persona ti dedica del tempo, è bello. Quando ti rendi conto che la storia resiste al suo sguardo, è bello. No, non ti siedi affatto sulle imperfezioni, ma ti senti spronato a fare meglio. A essere all’altezza delle aspettative. Il terrore (sì terrore) di rimettere mano alla storia, per modificarla, è meno grande di quanto sembri. Sei in grado di affrontarlo e persino di domarlo.Terrore perché immagini di stravolgere tutto, di ammazzare la storia perché un dialogo, un paragrafo, viene cancellato.
    Però è bello.

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