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Che senso ha scrivere?

Creato il 02 luglio 2013 da Marvigar4

pasolini che senso ha scrivere

 

   Vi sono intervistatori che, poveri di fantasia e di argomenti, spesso improvvisano quesiti da porre agli scrittori formulando delle domande tra le più stupide del pianeta, quali “perché scrive?”, “che senso ha scrivere?”… Lo scrittore di solito risponde arrampicandosi sugli specchi, forse per paura di apparire scortese o sciocco, sebbene abbia tutto il diritto di replicare con un semplice “guardi, sono affari miei!”, o tentare almeno di far capire che la domanda è talmente sciocca e così poco perspicace da far apparire chi la pone un bambino stupito dalla visione di un animale mai visto prima. Anche in questo caso ci viene incontro Pier Paolo Pasolini, il quale rispose con grande schiettezza e senno a una domanda, un po’ più articolata, sul senso della scrittura, o meglio “Che senso attribuisce ancora alla funzione dello scrittore, cioè che scopi, che limiti?”. Ecco la prima parte della risposta di Pasolini (la seconda la trovatenel filmato su youtube qui riproposto):

   «Ma… senso, nessuno. Mi sembra una cosa completamente priva di senso. Io continuo ad essere scrittore per forza di inerzia, per abitudine. Ho cominciato a scrivere poesie a 7 anni e mezzo e non mi sono chiesto perché lo facessi. Ho continuato a scrivere per tutta l’infanzia, tutta l’adolescenza, ed eccomi qui a scrivere ancora. Quindi, l’unico senso possibile è un senso esistenzialistico, cioè l’abitudine a esprimersi, così come c’è l’abitudine di mangiare, di dormire. I limiti sono quelli linguistici, cioè io, come scrittore italiano, sono molto limitato. Preferirei essere uno scrittore in lingua swahili, che è la dodicesima lingua del mondo ed è parlata in Kenya, in Tanzania, in Congo ecc.. Ci sono due categorie di scopi, la prima categoria attiene all’assoluto non senso dell’essere scrittore, e quindi sono degli scopi li chiami edonistici, o li chiami metastorici, o metafisici, o assurdi, come vuole, e direi che avvengono, così si adempiono sotto il segno della grazia, sono carismatici.»

   Forse esiste un’altra risposta alla domanda, una sorta di riconoscimento dell’ennesima somma disperazione dell’umanità: scrivere è cercare invano di far sopravvivere la voce umana, morta e risuscitata artificiosamente attraverso il deposito, la sedimentazione delle parole sul foglio, sia esso cartaceo o elettronico. Da sempre illusi di rendere immortale l’emissione vocale, gli uomini si sono indaffarati a che non vada perso il contenuto, il significato delle infinite voci che hanno parlato e parlano sin dalla notte dei tempi. Anche questa però è una pia illusione, dato che la scrittura non ce la fa a riprodurre i toni, i timbri originali e sceglie nell’approssimazione l’unica via per conservare i dati, le informazioni, i fonemi scarnificati e scheletriti. Se, per dirla ancora con Pasolini, il cinema è fragile perché affidato alla pellicola, poco più robusta di un’ala di farfalla, che cos’è mai la letteratura affidata alla scrittura su di un pezzo di carta o un foglio elettronico?

©Marco Vignolo Gargini



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