Non poteva finire che così. Elena Artioli, ex-leghista accreditata quale papabile neo-acquisto del Pd locale in salsa “liberal”, è stata cortesemente invitata dall’assemblea provinciale a stare alla larga. La questione però non può essere rubricata soltanto sotto la voce di uno “scampato pericolo”. Al di là di una lettura più contingente, legata anche ai mal di pancia e alle divisioni non ancora sopite all’interno del Pd locale, occorre esaminare se non sia stata proprio la recente mutazione del partito nazionale, divenuto con l’avvento di Matteo Renzi maggioritario nel paese, a favorire un “infortunio” del genere. Infortunio perciò sintomatico e tutt’altro che irripetibile, se non se ne approfondisce l’entità.
Per comprendere l’accaduto può essere utile citare un libro da più parti visto come il vero e proprio manifesto filosofico del renzismo: Il desiderio di essere come tutti (Einaudi). Romanzo esistenziale e politico scritto da Francesco Piccolo e non a caso fresco vincitore del premio Strega.
Il libro, diviso in due grandi campate, descrive una sorta di viaggio (senza ritorno?) tra una concezione della vita, e dunque anche della politica, pura e una concezione impura. La distinzione non è intuitiva e per rendere conto dell’uso di tali aggettivi occorrerebbe compiere una lunga digressione. Una via d’accesso più rapida viene per fortuna dalla compagna del protagonista, significativamente soprannominata “Chesaramai”.
Noi tendiamo a dire “che sarà mai!” quando, posti di fronte a una situazione per alcuni versi drammatica, tendiamo a relativizzare, ad eliminare la percezione dell’irreparabile, consci che alla fine poi tutto si può aggiustare e che, insomma, non conviene prendere mai le cose tanto seriamente. Piccolo parla esplicitamente di superficialità e sembra suggerire che uno dei motivi per i quali la sinistra italiana non era finora mai riuscita a “vincere” veramente, fallendo perciò la conquista del cuore del paese, è da attribuire proprio alla sua ostinata tendenza a prendere tutto dannatamente sul serio, separando la morale dalla politica, o meglio costringendo la politica ad adattarsi a un imperativo morale costitutivamente inadatto a cogliere le sfumature torbide e indecidibili della vita.
Piccolo a un certo punto si lascia sfuggire una dichiarazione illuminante: i simboli del progresso, sganciati dalla forza delle cose, hanno a lungo inchiodato la sinistra nell’infelice condizione di chi è condannato a conservare lo stato delle cose. Per superare questa condizione di stallo e di perenne sconfitta occorreva dunque sacrificare “il sintomo più sfrenato e dispendioso della purezza”, cioè l’etica, e cominciare ad accettare la forza delle cose affermando ogni volta “che sarà mai”. Dopo di che ogni traguardo non sarebbe più stato precluso e l’impossibile – come per esempio il ritenere plausibile l’inclusione di personaggi e culture politiche assai distanti dalla propria matrice originaria – sarebbe diventato finalmente, ancorché superficialmente, a portata di mano.
Corriere dell’Alto Adige, 10 luglio 2014