Magazine Religione
Qualche tempo fa mio figlio Giuseppe mi ha chiesto: «Papà, ma Natale non è la festa di Gesù Bambino?». «Certo», gli ho risposto. E lui prontamente: «Ma allora perché quasi tutti parlano di Babbo Natale e così poco di Gesù Bambino?». Confesso che la domanda mi ha spiazzato, anche perché i bambini, si sa, hanno una capacità di guardare le cose che noi adulti, per rispetto delle cosiddette convenzioni sociali, per superficialità o semplicemente perché in quel momento stiamo facendo altro, spesso e volentieri perdiamo. Così, in quel periodo prenatalizio di qualche anno fa, ho cominciato a guardarmi intorno, a osservare meglio la realtà (televisione, giornali, pubblicità, discorsi della gente e quant’altro) e mi sono accorto che l’obiezione di mio figlio aveva un qualche fondamento. Emerge un fenomeno socio- culturale di vaste proporzioni che tocca, purtroppo, non solo il Natale, ma anche le altre principali feste cristiane. Accade infatti che proprio il Natale sia ormai diventata – specie nell’Occidente industrializzato – una festa senza festeggiato. O meglio, con un surrogato di festeggiato: il Babbo Natale di tante pubblicità dalla matrice scopertamente consumistica. Pasqua, invece, passa per una generica «festa della primavera», l’Assunta risulta quasi completamente assorbita nel solleone del Ferragosto e Ognissanti, soprattutto presso il mondo giovanile, rischia di soccombere all’invadenza di Halloween. La prima immagine che mi è venuta in mente è quella di una sorta di scippo. O meglio, per effetto delle correnti culturali dominanti, viene operata sul dna delle feste cristiane una sorta di mutazione genetica, che pur mantenendone inalterato il nome e la struttura formale, ne cambia profondamente l’identità e in sostanza le svuota del loro vero significato. Le motivazioni di questa mutazione, o se si vuole dello scippo, possono essere apparentemente diverse. Ma la radice è unica e investe la sfera profonda dell’essere cristiani oggi, la corretta antropologia e in definitiva la stessa organizzazione sociale. Vediamo alcuni esempi.
Il Natale e Buzzati
Dino Buzzati, in un suo racconto, afferma che «di Natale ce n’è troppo ». Troppo Natale in senso consumistico. E troppo poco nel suo vero significato. Ricordo, infatti, che dopo l’osservazione di mio figlio, mi capitò di guardare in tivù un cartone animato americano che sembra essere la quintessenza di questo atteggiamento. Vi si narrava la storia di una muta di cani randagi che dovevano salvare il mondo da una sciagura incombente: il furto del Natale ad opera di una 'banda' di altri cani molto cattivi, non a caso disegnati come i feroci doberman. Ma il furto del Natale consisteva unicamente nella volontà dei 'cattivi' di cancellare per sempre dalla faccia della Terra l’usanza di scambiarsi i regali. Del resto, non è così anche nelle migliaia di spot e messaggi pubblicitari che ogni anno, inondano letteralmente tivù, giornali, internet e cartelloni stradali? Gli auguri di Natale non hanno più alcun riferimento esplicito alla nascita di Gesù. Punta avanzata di questa tendenza è l’onnipotente Google, una sorta di oracolo del nostro tempo. Di solito quando c’è l’anniversario di nascita o di morte di un grande personaggio, l’home page del sito viene ridisegnata con caratteri particolari, ispirati proprio alla figura del commemorato. Se poi si porta il puntatore del mouse sul grande logo che campeggia nella pagina, una didascalia spiega: «Anniversario della nascita (o della morte) di» e segue il nome del personaggio in questione. Il 25 dicembre 2011, invece, insieme a un logo ridisegnato con il consueto cappellino rosso e la neve, c’era scritto solo «Buone feste». Gesù censurato da Microsoft? Non solo. Nel 2010 la Commissione Europea ha prodotto più di tre milioni di copie di un diario dell’Ue per le scuole secondarie che non contiene nessun riferimento al Natale, ma include festività ebraiche, musulmane e persino indù e sikh.
La quaresima rimossa
Per la Quaresima, invece, più che di uno scippo si è trattato di una rimozione che ha fatto levaQsu aspetti psicologici, per diventare comportamento diffuso. Si è insistito, insomma, sulle privazioni che l’ascesi comporta, presentandole come aspetti negativi che limitano la libertà dell’uomo. E si è agito soprattutto sulla semantica, trasformando a poco a poco il significato della parola Quaresima. Così il tempo di preparazione spirituale alla Pasqua, pian piano è diventato un periodo in cui bisogna sacrificarsi a tal punto da rinunciare ad ogni tipo di umane soddisfazioni. Ma è proprio così? I Padri della Chiesa avevano in proposito un’idea completamente diversa. Per san Giovanni Crisostomo, ad esempio, questo periodo assomigliava a «una palestra con i suoi esercizi e il suo addestramento ». In un clima culturale come quello odierno che esalta la cura del corpo, che vede il pullulare di palestre e circoli sportivi, perché non proviamo anche a noi a riscoprire la Quaresima come una palestra dello spirito, che ci consente di tenere allenata la nostra vita di fede? In tal modo anche gli aspetti di privazione, insiti nella spiritualità quaresimale, non diventano fini a se stessi, ma solo dei mezzi per raggiungere un risultato. In fondo non è così anche nello sport? Chiunque abbia praticato, a qualsiasi livello, una disciplina agonistica sa bene che non tutti gli stili di vita sono compatibili con la pratica sportiva. E non si tratta solo di non bere e non fumare, ma anche di sapersi alimentare correttamente, di non eccedere nell’attività sessuale, di rispettare un corretto equilibrio tra il sonno e la veglia, per non parlare della costanza negli allenamenti, che per definizione implicano sudore e fatica. I sacrifici, insomma, sono richiesti anche a chi si dedica allo sport, che di solito è annoverato tra le attività piacevoli.
Una Pasqua di consumo
L’eclissi della Quaresima riversa le sue conseguenze anche sulla Pasqua. La festa più importante della cristianità è oggi ridotta dalla pubblicistica del consumo a poco più che uova e gita fuori porta. Ai bambini, fin dalle scuole dell’infanzia ed elementari, viene presentata spesso come una generica «festa della Primavera», che celebra il risveglio della natura dopo il letargo invernale. E molti ritengono che celebrare la Pasqua in una società ormai multiculturale come la nostra rechi offesa al senso religioso di quanti hanno un altro credo. La scuola è in prima linea in questo modo di pensare. Ma se la scuola rinuncia a trasmettere le basi della nostra cultura, come potrà sviluppare poi il discorso sul resto delle necessarie conoscenze? Quanto, infatti, del mistero di Pasqua c’è nella storia dell’arte, della letteratura, della musica, del pensiero? Quanto non sarebbe più comprensibile della storia di questi ultimi duemila anni senza fare più riferimento agli avvenimenti storici che i cristiani pongono a fondamento della loro fede? Probabilmente un buon 80-90 per cento, se non di più. E quindi estromettere queste informazioni basilari dall’insegnamento equivale a far studiare la matematica saltando del tutto le tabelline. Impossibile. Inoltre, proprio perché il discorso è di natura culturale, si può rispondere all’obiezione sul presunto rispetto nei confronti degli alunni di altre religioni. Questa obiezione è il frutto di un fondamentale fraintendimento tra scuola e catechismo. Vi è infatti chi pensa ancora (o a volte fa finta di non sapere) che a scuola, quando si parla di religione cattolica, si faccia il catechismo. Nulla di più errato. Persino nell’ora di religione questa confusione di ruoli non esiste.
Compito della scuola è innanzitutto trasmettere nozioni corrette e complete. Compito del catechismo è invece istruire nella fede, coloro che liberamente hanno scelto di aderirvi. Quindi ricordare che secondo i cristiani l’uomo Gesù è anche vero Dio e che è risuscitato dai morti è profondamente diverso dall’affermare: «Io credo nella Risurrezione di Gesù». Se al contrario si affermasse definitivamente l’erronea convinzione secondo cui della Pasqua non si deve parlare a scuola per rispetto a chi cristiano non è, il pericolo sarebbe un altro. Quello di privare gli alunni di tutta una serie di informazioni indispensabili per la loro successiva carriera scolastica. Tutto ciò riguarda anche i figli degli immigrati di diverse fedi. I quali si troverebbero a vivere in un mondo quasi completamente indecifrabile senza quelle conoscenze basilari di cui essi, oltre tutto, sono più a digiuno degli altri, non potendo neanche disporre delle primarie mediazioni culturali date agli autoctoni dalle proprie famiglie. Altro che rispetto, dunque. Nei loro confronti, al danno si aggiungerebbe la beffa. Proprio in nome di quell’integrazione e di quell’accoglienza di cui oggi tanto si parla.
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