Dalla Conferenza sul clima di Rio de Janeiro a Durban: impegni accordi e promesse..
di Salvatore Denaro
“For most people in the developing world and Africa, climate change is a matter of life and death”. Con queste parole, che sembrano essere un ammonimento ai grandi Paesi industrializzati, il Presidente sudafricano Jacob Zuma ha inaugurato i lavori della 17° Conferenza delle Parti (COP17) della Convenzione ONU dei cambiamenti climatici (UNFCCC), svolta a Durban (Sudafrica) dal 28 Novembre al 10 Dicembre. Il Summit, a cui hanno partecipato 195 Paesi, si proponeva di dare concretezza agli accordi di Cancun dello scorso dicembre e di verificare la disponibilità di Paesi come Stati Uniti, Cina, Brasile e India ad allinearsi ai parametri di riduzione delle quote di emissioni di gas ad effetto serra stabiliti dall’Unione Europea.Un po’ di storia
La storia delle Conferenze sul clima comincia con Rio de Janeiro nel 1992, in cui è stata adottata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, uno strumento che ha rappresentato il primo passo verso la stesura di un trattato internazionale capace di vincolare ciascun membro a limitare le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Nel corso degli anni ’90, le intense discussioni circa le riduzioni delle emissioni hanno condotto ad una netta spaccatura della comunità internazionale: da una parte una minoranza (esclusivamente sul piano numerico e non politico) di Paesi industrializzati, cioè coloro che contribuiscono in maniera maggiore al surriscaldamento globale, dall’altra una maggioranza di Paesi in Via di Sviluppo, ovvero coloro che spesso ne patiscono le conseguenze.
Il 1997 è stato l’anno del protocollo di Kyoto, città giapponese in cui si svolse la Conferenza COP3. Di certo si è trattato di un accordo storico perché per la prima volta viene sancito l’obbligo di riduzione delle emissioni del 5% rispetto ai valori del 1990 all’interno del periodo 2008-2012. Il protocollo ha consolidato la distinzione tra Paesi industrializzati e Paesi in Via di Sviluppo, poiché prevede maggiore flessibilità per quest’ultimi e maggior rigore per i primi. Entrato in vigore solamente nel 2004 grazie alla ratifica della Russia (erano necessarie 55 ratifiche), ha trovato negli Stati Uniti un ostacolo tuttora decisivo. Nel 2001 l’amministrazione statunitense guidata da George Bush ha deciso di abbandonare i negoziati per la ratifica dell’accordo perché incompatibili con l’economia americana a vantaggio di altre economie concorrenti.
Nei lavori della Conferenza di Bali del 2007 (COP3) si è cercato di aggiornare gli obblighi previsti in relazione alle mutate condizioni socio-economiche di alcuni Paesi in Via di Sviluppo come Cina, Brasile e India. Le nuove disposizioni dovevano essere adottate della Conferenza di Copenaghen del 2009 (COP15), ma, come era ampiamente prevedibile, si è giunti ad un nulla di fatto o poco più. Quello che molti addetti ai lavori hanno definito come un “micro-accordo” prevede un patto tra Usa, Cina, India, Sudafrica e Brasile. Viene riconosciuto un aumento della temperatura media di 2 gradi ma nello stesso tempo viene accantonata, con grande soddisfazione da parte della Cina, l’obbligo del taglio del 50% delle emissioni per tutti i Paesi entro il 2050. In compenso si è stabilito un fondo di 30 miliardi di dollari per il biennio 2010-2012.
Dopo il sostanziale flop di Copenaghen, c’erano molte attese per la Conferenza di Cancun del 2010 (COP16). Rispetto a Copenaghen qualche risultato è stato raggiunto come ad esempio l’approvazione di un piano di difesa delle foreste dei Paesi in Via di Sviluppo e l’istituzione di un “Fondo verde” (Green Climate Fund). Pur tuttavia, la questione cruciale riguardo impegni vincolanti per coloro che non hanno sottoscritto il protocollo di Kyoto è stata ancora una volta rinviata.
Gli accordi e le prospettive di Durban
Per l’Europa non era più accettabile che grandi Paesi come Stati Uniti, Russia, Cina e Canada continuassero a restare nella lista nera dei “free-rider”, ovvero di coloro che, non accettando le limitazioni delle emissioni, approfittano indirettamente dei sacrifici altrui per il benessere generale.
A tal proposito, secondo recenti dati forniti dall’Unione europea, la Cina produce il 24% delle emissioni di CO2 a livello globale, seguono gli Stati Uniti con il 18% e l’Unione Europea con l’11%. Per questo motivo, l’Europa ha spinto fin dall’inizio per un coinvolgimento diretto di grandi potenze come Cina e Stati Uniti in un nuovo accordo globale.
Alla fine di un estenuante negoziato, la Conferenza di Durban si è conclusa con un accordo raggiunto in extremis alle 5 del mattino (ora locale). L’intesa prevede la creazione di una “Road Map” capace di formalizzare un accordo globale entro il 2015, in modo tale da poter entrare in vigore entro il 2020. Si tratta di un compromesso che dal punto di vista formale è molto importante poiché per la prima volta coinvolge i grandi assenti del Protocollo di Kyoto come Cina, Stati Uniti e Brasile; ma dal punto di vista sostanziale si tratta dell’ennesima occasione persa per far fronte in modo celere ed efficace ai cambiamenti climatici.
Eppure l’Europa ha subito manifestato il proprio apprezzamento per la “Piattaforma Durban” dichiarando, tramite il Commissario europeo Connie Hedegaard, che sono stati raggiunti gli obiettivi più importanti attraverso il superamento della dicotomia del Protocollo di Kyoto tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo. Poco importa se a Durban si è fatto poco o nulla di concreto per un’immediata riduzione delle emissioni, quello che sembra avere più rilievo è l’effettivo cambiamento del sistema di salvaguardia del pianeta attraverso un progetto “globale” certamente più ambizioso.
Gli ambientalisti protestano perché il testo è troppo debole e i tempi di un trattato internazionale che entrasse in vigore solamente nel 2020 sarebbero troppo lunghi. A tal proposito Nnimmo Bassey, di Friends of the Earth International, ha affermato che la temperatura salirà di altri 4° e ciò rappresenterà la fine di molti Paesi africani, incapaci di aspettare gli effetti di un trattato così lontano. Sul piano della riduzione delle emissioni non è stato fatto nulla, a parte il prolungamento di altri 5 anni degli obblighi previsti dal Protocollo di Kyoto ad eccezione di Russia, Giappone e Canada che hanno annunciato già da tempo il loro rifiuto al cosiddetto Kyoto2. Per quanto riguarda il “Green Climate Fund”, in tempi di crisi economica, sono state stabilite solamente le modalità e il funzionamento delle strutture adibite alla gestione dei fondi definite a Cancun, ma le promesse di finanziamento continueranno a rimanere tali (100 miliardi di dollari entro il 2020).
Da questa ennesima Conferenza sul clima emerge come i governi, soprattutto i cosiddetti “grandi inquinatori”, fatichino a non distogliere le loro attenzioni dalle da motivazioni di carattere economico (nei peggiori casi dalle lobby delle multinazionali) e dall’ansia di portare a casa un risultato vantaggioso esclusivamente per l’economia dello Stato in questione. Il “decidere di non decidere” rappresenta il migliore strumento per mantenere gli interessi inviolati ed i rapporti di forza legati ad altre variabili. Ma su questo aspetto la green economy potrebbe giocare un ruolo chiave nei prossimi anni.
A questo proposito, durante i negoziati di Durban, ha destato sorpresa l’improvvisa apertura della Cina, poi ritirata, per un accordo sulla riduzione delle emissioni. In realtà Pechino è consapevole dei rischi del surriscaldamento globale su una popolazione che supera abbondantemente il miliardo, ma allo stesso tempo deve mantenere i suoi standard di crescita. Per fare ciò però necessita ancora di una produzione energetica ad un costo relativamente basso come quello fornito dal carbone. Ma da uno studio del China Council of International Co-operation on Environment and Development (CCICED) emerge la necessità economica di una svolta “verde” della Cina. Si verrebbe a formare, così, un circolo virtuoso grazie alla creazione di quasi 11 milioni di posti di lavoro, ad un imponente risparmio energetico e ad un’impennata del PIL nazionale. Per queste ragioni, oggi, sembra essere più facile negoziare con la Cina che con gli Stati Uniti, spesso arroccati in posizioni molto più nette e rigide.
La prossima Conferenza sul clima si terrà dal 26 novembre al 7 dicembre 2012 in Qatar, un Paese che emette 53,2 tonnellate di CO2 pro-capite, più di un americano ed un cinese messi insieme. In quella sede non ci sarà più tempo per rinvii, e, invece, sarà l’occasione per riempire le casse ancora vuote del Green Climate Fund e per dare concretezza alle intenzioni ed alle promesse, magari con un accordo preliminare (che stavolta comprenda USA e Cina) per la riduzione immediata delle emissioni, in attesa del fatidico 2015, anno in cui dovrebbe essere pronto (il condizionale è d’obbligo) il nuovo trattato globale sul clima.
* Salvatore Denaro è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)