Lezioni condivise 46 – La congiura di Palabanda
Nel periodo rivoluzionario sardo – che viene solitamente indicato come un decennio, ma che va in realtà dai primi echi in Sardegna della Rivoluzione francese fino al 1812 e passa – a Cagliari si formarono dei club giacobini, alcuni moderati altri più radicali. Uno di questi era quello di Palabanda, dal nome della località in cui si riuniva, nel quartiere di Stampace a Cagliari.
Il 30 ottobre 1812 sarebbe dovuto partire da lì quello che è da considerarsi l’ultimo tentativo insurrezionale contro il dominio piemontese, passato alla storia come Congiura di Palabanda o “borghese”, essendo i sovversivi appartenenti in buona parte all’inquieto ceto medio: avvocati e altri professionisti.
E’ sintomatico che questa emozione nascesse a Stampace, quartiere vivace e temuto, sanguigno, il fulcro della resistenza all’oppressore, dunque quello più anelante alle idee di libertà.
Il catalano Ramon Muntaner (1265-1336), che aveva partecipato all’assedio di Cagliari da parte dell’infante Alfonso nel 1325, nella sua Cronica scrisse: “Il Borgo di Stampace, popolato dalla più maledetta gente del mondo… Non vi sono maggiori peccati che un uomo possa commettere che non siano stati commessi a Stampace…lì albergano orgoglio ed arroganza…”. Fermo il prezioso supporto storico tramandatoci, non capisco cosa pretendesse questo soldato, di essere forse accolto con una mesada de malloreddus e proceddu arrustu?
La sommossa fu tradita, il capo della rivolta individuato nell’avv. Salvatore Cadeddu, segretario dell’Università e tesoriere del comune, recidivo, in quanto ebbe parte nella sollevazione più importante e almeno in un primo momento vittoriosa, del 28 aprile 1794.
Sul fatto, che portò alla condanna a morte i principali congiurati, esiste pochissima documentazione anche nei registri segreti, gli atti del processo sparirono quasi subito dagli archivi.
Si dice che la documentazione sia stata portata via dai Savoia, in ultimo da Umberto II nell’esilio portoghese.
Lo studio più completo sulla vicenda è quello della professoressa Maria Pes, La rivolta tradita. La congiura di Palabanda e i Savoia in Sardegna, ed. Cuec, Cagliari 1994.
Della valle di Palabanda com’era allora è rimasto poco, un po’ inghiottita dalla città, resiste solo qualche segno, come il portale che fungeva da accesso ad una corte abitata da povera gente e che dà sul corso. Lo citò in un articolo Francesco Alziator, intorno al 1977, preoccupato perché a qualche sciagurato non venisse in mente di demolire l’ultima memoria architettonica di quel pezzo di storia, ultimo concreto impeto d’orgoglio di un’avanguardia del popolo sardo, che meriterebbe piuttosto salvaguardia e sa giustizia si ddu cruxiat a chi oserà toccarlo.
In quel cortile e nel giardino retrostante, di proprietà del Cadeddu, si riunivano da tempo i cospiratori: là si divertivano, discutevano di politica, del predominio in città dei piemontesi, al seguito di Vittorio Emanuele I, costretto in Sardegna dall’occupazione napoleonica e la cui presenza aveva significato un inasprimento delle tasse per i sardi.
Scrive lo Spano nel 1861: “Era questo un predio dell’infelice avvocato Salvatore Cadeddu, il quale l’aveva adornato di sedili e di altre comodità per ricrearsi. Quivi soleva trattenersi quotidianamente nelle ore d’ozio, dove concorrevano gli amici più cari che aveva, e distinti cittadini. All’ombra di due cipressi di morte, che allora vi sorgevano, seduti tutti solevano biasimare gli atti del Governo, e quindi meditavano di farlo crollare. Ma non ebbero effetto, perché fu scoperta la trama, e parte di essi terminarono la vita con supplizj e parte nell’esilio” e lo descrive come luogo di grande fascino per il giardino “ordinato con lusso di opere d’arte”. Cagliari non pativa la siccità che per anni l’ha tormentata grazie anche ai pozzi di quell’area periferica: quello dei Cappuccini profondo trenta metri, la cui acqua, “è buona e molto leggera”. Non meno importanti erano “la bellissima fontana di acqua salmastra di cui si provvede la città” e la “grande cisterna scavata nella roccia” dove già si progettava di aprire l’Orto Botanico.
Nei pressi erano anche is osterieddas, descritte dall’Alziator come “Miserevoli osterie, con stuoie al posto di letti; più tardi abitazioni per le famiglie più povere”.
La parte alta della valle, trasformata in vigneto dai Cadeddu, è oggi l’orto botanico, impiantato nel 1862 per volontà del prof. Giovanni Meloni Baylle, docente di Scienze Naturali presso l’Università cagliaritana, che acquistò il terreno. Esso in alcune parti conserva uno scenario di natura archeologica di epoca punico-romana e ambientale, “grazie” anche al fatto che dopo la congiura, la stessa località, caduta in disgrazia e malfamata, fu trasformata in discarica. Oggi nel piazzale centrale è posta una lapide in ricordo di quel moto.
Il malcontento persistente, si esacerbò durante il viceregno di Carlo Felice, detto Feroce, durato fino al 1806. Dopo il primo periodo di repressione, egli si legò a certi ambienti cagliaritani, dando qualche contentino alla Reale società agraria, agli asili, ai collegi; fece qualcosa per la sanità, erogò borse di studio… Bastò per incantare alcuni ambienti, tra cui proprio quelli che organizzarono la rivolta, vedendo peggiorare la situazione con la presenza del re nell’isola.
Il 1812 fu l’anno della fame e della peste (vaiolo), l’anno in cui la carestia produsse gli effetti più nefasti, come descrisse il futuro duca di Modena Francesco d’Austria-Este. Era il periodo in cui le prefetture cominciavano ad esercitare il proprio controllo e si tentava invano la leva dei sardi. La zecca veniva trasferita in Sardegna e abolito il valore del denaro cartaceo, si coniò quello in argento.
In questo contesto – con un popolo che era già riuscito a liberarsi dal giogo straniero, ma al quale aveva di nuovo ceduto gratuitamente; con i patrioti impiccati ed esposti alle porte delle città o morti in esilio e in prigione, la gente affamata, morente nelle strade, oberata dalle tasse, i posti ai sardi promessi e non concessi – si sviluppò l’idea di un sovvertimento dell’ordine costituito, di un’altra cacciata dei piemontesi, forse definitiva, da parte della famiglia dell’avv. Salvatore Cadeddu, oltre a lui i figli Gaetano e Luigi, il fratello Giovanni, Giuseppe Zedda, docente nella facoltà di Legge, gli avvocati Francesco Garau e Antonio Massa, il sacerdote Antonio Muroni ed altri insigni professionisti di Cagliari. Ma era rappresentato anche il popolo con il conciatore di pelli Raimondo Sorgia, il sarto Giovanni Putzolu, il pescatore Ignazio Fanni e il panettiere Giacomo Floris.
L’insurrezione era prevista per la notte tra il 30 ed 31 ottobre 1812. Si dovevano occupare le porte di Stampace e Villanova, entrare nel quartiere Marina dalla porta di Sant’Agostino, lasciata aperta dai soldati di guardia, complici, per poi espugnare Castello, arrestare Giacomo Pes di Villamarina, comandante militare della città, ed espellere i pubblici funzionari e i cortigiani, che stavano portando la Sardegna alla rovina.
Ma la notizia della cospirazione arrivò all’avvocato del fisco Raimondo Garau che informò il re ed il colonnello Villamarina che allertò i militari ai suoi ordini.
Il fallimento fu dovuto a tradimento, delazioni, indecisioni ed imprudenze; i congiurati furono in gran parte arrestati.
Il panettiere Giacomo Floris fu uno dei primi a rinunciare quando incontrò una pattuglia di piemontesi e così fecero alcuni suoi amici. Il sarto Giovanni Putzolu e alcuni compagni mentre si aggiravano nelle stradine di Stampace furono intercettati dal colonnello Villamarina e Putzolu, vistosi perduto, puntò una pistola contro il comandante, ma i suoi amici gli impedirono di sparare.
Sorgia e Putzolu furono arrestati e impiccati, Salvatore Cadeddu ebbe la stessa sorte qualche mese dopo.
Gaetano Cadeddu, Ignazio Fanni, Zedda e Garau furono condannati a morte in contumacia
Giovanni Cadeddu, e il Massa morirono in carcere scontando la pena dell’ergastolo; Floris e Pasquale Fanni al remo a vita. Gli altri furono esiliati o banditi.
Per il Martini il Cadeddu “Amato come egli era e riverito dai concittadini per la gravezza degli anni, per le cariche onoratamente coperte, non fuvvi uomo d’animo sensitivo che non ne compiangesse l’infortunio, in quel giorno soprattutto che perdette miseramente la vita nelle forche istesse, dove mesi prima l’avevano lasciata Sorgia e Putzolu”. La patria non li condannò, prosegue il Martini, Storia della Sardegna, Cagliari 1852: “… tra l’immensa turba degli avversi al potere dominante, uomini furono nel medio ceto che a novità politiche anelavano, per impeto di buon animo e santo desiderio di sanare i mali della patria”.
(Storia della Sardegna – 26.4.1996) MP
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