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China

Creato il 08 giugno 2011 da Fabry2010

China

di Maria Grazia Calandrone

L’ITALIA DEGLI ANNI SETTANTA. UNA PENISOLA ANCORA TRIDIMENSIONALE
su il manifesto, 2 giugno 2011

Maria Pia Quintavalla, China, effigie 2010

Tutti quelli che scrivono lo fanno perché hanno qualcosa o qualcuno da salvare, qualcuno al quale dare voce o da risarcire. Nel caso di Maria Pia Quintavalla si tratta della propria madre, Gina, dunque lei tratta insieme dono e lutto – e lo dice così bene: e per una sola di queste parole / sarete perdonati.
In tema di lutto e perdono (anche del perdono irreversibile che noi vivi siamo tenuti a consegnare a chi muore) teniamo a ricordare la bellissima sezione Madreperla del recente La mente paesaggio di Laura Pugno. Ma, dove Pugno procede, in malattia e morte della madre, tirandoci come un pifferaio magico dietro i suoi fascinosissimi simboli, più lattei che mai, tanto da essere cagliati in pani di burro, Quintavalla “racconta”, spiana la vista anche di tutti gli almodovariani legami parentali di una donna posta al centro delle molte orbite del romanzo familiare: manifeste e segrete, remote e presenti. Citiamo ovviamente non a caso Almodovar, in quanto la nostra Gina-China viene dalla Spagna (si tratta della discendente di una stirpe marrana che viveva isolata nel ghetto di Colorno, vicino a Parma) e citiamo Almodovar anche perché il testo ci appare “sceneggiato”, diviso in scene dove le figure appaiono e stanno in formazioni tridimensionali e nella oralità di un discorso a due voci che ruota sui fondamenti di tre parole ossesse: luce, voce, vita.
Crediamo di poter assumere i due versi solo nudo di carne / separata come pietra per descrivere perfettamente, oltre ai veri monumenti erotici occhieggiati nell’infanzia da Maria Pia, la sua motivazione per chiamare China – nome d’inchiostro che lascia segni sottilissimi e indelebili e insieme nome del continente lontanissimo, dell’altrove eccellente – la propria mai veramente disvelata madre, il continente fuori dal contatto che, come l’Arturo della Morante, uno dei più generosi amanti della letteratura, abbiamo già perdutamente amato. Ora: ricorderemo di lodarla. L’interrogazione allo stato di morte oscilla infatti tra una constatazione dolente e serena, pari a quella di Antonella Anedda quando scrive che (forse) i morti non hanno bisogno di noi e la invocazione invece a chi riposa nella conoscenza e viene chiamata in causa come una piccola divinità. Ma è soltanto un momento. Le vite, quando sono finite, diventano così semplici da capire, così “logiche”, così impossibili a essersi svolte altrimenti: a cose fatte si comprende la inevitabilità di certe direzioni prese quasi sovrappensiero, l’urgenza di certe scelte che a loro volta formano i destini, anche il nostro, anche quello di quelli che verranno poi: dei nostri figli, della figlia, qui: Sara.
Quello di China è anche il racconto di un cannibalismo femminino, che si appiana brevemente alle soglie di una nascita e si oltrepassa per sempre insieme al ciglio freddo e muschioso della morte, quasi in un ritorno all’eden dell’infanzia, al vento della vita non passato ancora / sul naufragio. E così viene in mente il nervosissimo, il brusco e tenero Ottetto per madre di Cristina Annino. Ovvio che alle madri va reso il conto della propria vita, ma ecco che veniamo colpiti da una vistosa differenza: mentre nell’immaginario poetico di Laura Pugno la madre è il frammento centrale di un animale mitologico, una specie di altare bianco e intatto al quale dire ancora e per sempre io ti amo, nella poesia di Quintavalla e Annino la madre è de-scritta nella realtà del suo decadimento ed è da questo corpo infine arreso che viene suscitata una pietà, una passeggiata finale, una festa Heimattiana dei vivi e dei morti. Certamente diverse le madri, ma ancora più certamente diverse le generazioni: Maria Pia Quintavalla ha vissuto la propria adolescenza durante gli anni di piombo, quando uscire per strada a Milano equivaleva a esporsi a un pericolo. In quegli anni una figlia sedicenne – ce lo racconta lei stessa in China – poteva entrare in casa sventolando provocatoriamente Darwin, Freud e Marx, poteva esporre se stessa e la propria madre al rischio di una rivoluzione, perché le mura domestiche risuonavano già di quanto andava accadendo per le strade: nei Settanta la rivolta era una esposizione universale, si trovava a ogni angolo uno specchio ancora intatto della propria energia e del proprio spavento di inesperti e nervosi gangli di vita, quando non una strage ahimé non simbolica. Credo sia per questo che le poetesse che sono state adolescenti in quegli anni hanno ancora oggi gli occhi fissi sulla realtà, da quella politica a quella così intima della propria madre. Il pubblico: il privato, si sa. Negli anni Ottanta invece la via alternativa, per un immaginario inquieto e rivoluzionario com’è quello dei poeti, erano fatti bidimensionali: i manga, gli ologrammi – che sarebbero diventati gli avatar contemporanei, ovvero il paradosso della terza dimensione virtuale – e tutto ciò schiacciato dalla luce diaccia e piatta dei Neon, portati in poesia da Lidia Riviello. Oppure il solito Dio. Oppure il barricarsi nelle minime cose, volendo dare al termine “barricarsi” una valenza di asfissia circolare: dall’io al mondo, ma soprattutto viceversa.
Nella storia letteraria italiana appare una frattura che alcuni stanno tentando di ricomporre, una omissione in via di soluzione, poiché si sta cominciando a raccontare l’atmosfera di guerra civile di quegli anni, per esempio nel bel racconto dislocato e obliquo di Patrizia Zappa Mulas su Piazza Fontana e per esempio nella quarta parte di China, dal titolo Milano, poi. Maria Pia Quintavalla, come Foscolo, sa benissimo che il vero pericolo di morte è nella amnesia: lo dice con tutta la sua opera e lo dice chiarissimamente alla fine di China, con quel Io mi ricordo, a sua volta legato alle liste di Georges Perec, al Considero valore di Erri De Luca e ai recentissimi elenchi “morali” di Fazio-Saviano, in una concatenazione di legami sommersi, invisibili ai più, che sono tutta la nostra vita e il cantare semplice della vita degli altri che ci rende vivi, sì: finalmente altro da noi!

da Il Manifesto



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