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Chiodi, bulloni, macchinette del caffè

Da Marcofre

Domanda da un milione di Euro: quali sono le qualità che deve avere una storia perché sia capace di respirare? Al di là delle solite intendo: rispetto delle regole grammaticali e di sintassi.
Rispondere a una questione del genere non è agevole. La mia idea è di una semplicità che farà rizzare in testa i capelli a più di un lettore di questo scalcagnato blog. In teoria, non ci sarebbe affatto bisogno di un post del genere; è sufficiente leggere Carver, o Flannery O’Connor. Visto che però in pochi leggono, e tutti sono afflitti da questa smania di scrivere, tocca rispolverare l’ovvio, e proclamarlo.

Il bambino inizia ad avere qualche rapporto col mondo grazie ai sensi. Gli occhi certo, ma non solo. Adora ficcare le mani nei posti più impensati (le prese elettriche per esempio, il retro di una radio a valvole sprovvista di copertura posteriore), e questa sua condotta lo aiuta a capire.

La nostra esperienza passa attraverso i sensi, e sono essi che ci mettono in relazione con gli altri. Da bravi animali sociali che siamo, usiamo l’udito, l’olfatto e tutto il resto per distinguere, imparare, fare esperienze buone o cattive che siano.

Spesso mi chiedo per quale motivo chi scrive non riesce a rendere reale questa realtà. Si preferisce scrivere di idee invece di carne e sangue. Eppure i nostri passi nel mondo sono appunto “concreti”. Dopo, cosa accade? Cos’è che corrompe?

Non ne ho idea (o meglio: un’idea ce l’avrei ma non è la sede adatta). Di certo pure io una volta scribacchiavo di idee, e basta. Il che è pericoloso perché si è persuasi di essere nel giusto. Ci si guarda attorno con occhio scettico e ci si convince che le persone non pensano; per fortuna ci siamo noi, vero?

Quando poi arrivano i rifiuti (o dovrei scrivere i silenzi?) degli editori, è evidente il perché, giusto? “Essi” hanno paura di noi, ci temono, sanno che le nostre idee potrebbero far saltare in aria il sistema pluto-demoniaco-capitalistico-imperialistico-editoriale italiota, e ci mettono in un angolo.
La storia è scritta male. Anzi, nemmeno c’è una storia, e non basta scrivere sul frontespizio: “Racconto lungo” o “Romanzo breve” perché sia appunto una storia. Non c’è niente.

Non ci sono personaggi. Le azioni sono senza peso perché compiute da creature fatte di pensiero. I dialoghi sono proclami. Eppure è comprensibile questo modo di agire.

Scrivere di idee è più semplice; non si ha a che fare con la pesantezza della carne. I personaggi, le loro peculiarità spariscono. Perché curare i dettagli, quando c’è una grande idea che ci guida? Per quale ragione perdere tempo con la cura delle parole (di ogni parola), se siamo chiamati a portare a termine una missione?
Per quale motivo scrivere, riscrivere, cancellare, modificare, procedere senza fretta, quando il mondo là fuori ha bisogno della nostra luce?

Ci si affida alle idee e ai concetti perché si prova una profonda indifferenza per l’individuo. Costui se esiste, è solo un vaso vuoto da riempire con le nostre idee, o se contiene qualcosa, deve essere preso per i piedi, rovesciato, svuotato, quindi riempito da noi.
Se a rovesciarsi e a cambiare è invece la nostra idea di narrativa, allora tutto o quasi quello che ci circonda può avere un senso, e il diritto di abitare nelle pagine.

Quando c’è concretezza non diventa bislacco parlare di bulloni o macchinette per il caffè (purché siano utili alla storia). Sono abbastanza certo che la mancanza di bulloni in una storia, o meglio, di dettagli che ricoprano un preciso ruolo nel racconto, siano indice di menefreghismo.
Vuol dire che non ci importa un accidente del valore di chi legge, e anzi lo riteniamo senza valore, a meno che non ci segua.

Non solo: in questo rapporto, chi legge si considera vuoto come una noce, un essere inferiore alla disperata ricerca di qualcuno che gli spieghi come deve pensare, e quando e come e perché.

Spaventoso, secondo me.


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