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Christian Louboutin rimpiange Les Folies Berger

Da Sophielamour

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Avete presente la foto di Carla Bruni e Letizia Ortiz, principessa delle Asturie, ritratte da dietro, mentre salgono soavemente una scalinata? A Pietrangelo Buttafuoco non è sfuggita. L'ha voluta sulla copertina del suo ultimo libro Fimmini. Carlà ha le scarpe con la suola rosso fuoco: quel giorno indossava delle Christian Louboutin. Sì, scarpe gioiello, glamour, a tratti fetish. Diciamolo: scarpe da femmina.
Eccolo Christian, classe 1964, in questo quartiere dietro alle Halles, su rue Jean-Jacques Rousseau, dove ha il suo laboratorio fin da quando si mise in proprio, nel 1992, e dove aprì la sua prima boutique (è ancora là), all'ingresso della galleria ottocentesca Véro-Dodot, il suo nido nella sua Parigi. «Sono nato in questa città. È così bella: mi piace girare per il mondo, ma poi ritornare sempre qui. Sono comunque consapevole che noi parigini possiamo essere maleducati. Talvolta spaventosi».


I viaggi rappresentano una delle sue grandi passioni. Come le case. È in partenza per Buenos Aires: «Non ci sono mai stato. Temo che mi piacerà. E che poi mi incaponirò a comprare un appartamento pure lì. Un'altra grana in arrivo». Va detto che, alla faccia della crisi, tutto fila liscio per lo stilista. Negli ultimi tempi ha accelerato le aperture delle sue boutique, ormai diciotto a livello mondiale (nell'estate 2010 sarà la volta di Roma, la prima in Italia). Le clienti del lusso stanno ritornando ai «valori sicuri». E la scarpa dalla suola rossa, in effetti, non va mai fuori moda. I prezzi? Minimo 450 euro. E lievitano rapidamente se si va su certi materiali che Louboutin adora, quali il pitone o il coccodrillo.
Tutto iniziò tanto tempo fa. «Avevo 12 o 13 anni, non ricordo bene. All'entrata di un museo qui a Parigi vidi un pannello con la sagoma di una scarpa con il tacco e sopra una fascia rossa. Erano proibite perché rovinavano il parquet». Scoppiò una passione. «Iniziai a disegnare continuamente scarpe per donna. In maniera quasi maniacale».
E sempre con la suola rossa. Altra tappa importante: «A sedici anni cominciai a frequentare le Folies Bergère. Portavo caffé, facevo di tutto. E scrutavo con ammirazione le ballerine. Disegnai delle scarpe anche per loro». Non vennero mai prodotte. Ma da adulto ha avuto la soddisfazione di creare calzature per le esibizioni di Dita Von Teese e Arielle Dombasle al Crazy Horse. «Sono pazzo delle commedie musicali».

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È pure con questo vissuto che è nato lo stile Louboutin: esuberante, francese, femminile. Calzature mediamente assai appuntite, con tacchi talvolta vertiginosi. Stiletti sorprendenti. E sopra, di tutto: strass (rossi nel modello Lady Claude della stagione primavera-estate 2010), chiodi metallici (Pigalle), ricami (Bridget). «In realtà per me la forma della scarpa è tutto. Il resto è maquillage. In questo sono cambiato strada facendo: adesso cerco di "spogliare" la calzatura, più che aggiungere, decorare». Dai suoi viaggi arrivano nuove ispirazioni. «L'anno scorso a Damasco ho scoperto un artigianato locale straordinario. Nella mia ultima collezione ho utilizzato tanti ricami e cotoni siriani». Quello per i tessuti è il suo altro grande amore. All'origine di una raccolta di almeno 300 cravatte (Christian non ne conosce il numero preciso). Incredibile, perché lui non ne indossa quasi mai. Altro fatto sorprendente: il creatore di scarpe impossibili acquista le cravatte praticamente solo da Charvet, la maison parigina specializzata in questo prodotto, il non plus ultra della tradizione. «Mi piacciono il loro stile, la scelta dei colori, i disegni. E adoro Anne-Marie Colban, la direttrice della boutique. Parla in fretta, ma non dice mai sciocchezze. Sembra il personaggio di un film di Truffaut».
Fra le destinazioni più frequenti delle sue trasferte c'è anche l'Italia. Louboutin vi fabbrica tutte le sue scarpe. Possiede direttamente pure due impianti, fra Parabiago e Vigevano. Al di sopra di uno ha fatto allestire un appartamento, l'ennesimo. «Da lì' si scende direttamente alla fabbrica. Vi trascorro giornate piene di lavoro. I miei amici italiani mi chiamano. Mi dicono: vieni a Milano! Ma io non ci vado mai ».

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