Alfred Sisley, “Alberi di noce al tramonto” (olio su tela, fine ’800)
(Dedicato a R. – M. – G. – F.)
Il sorriso degli amici, le allegre serate, la terra rossa, i muretti a secco, le distese di ulivi, la voce della vicina, i ritmi dello scorrere quotidiano.
Il lavoro che manca, il cliente che non paga, le notti insonni, l’avvocato che non conclude, l’auto da pagare, la casa da finire, i figli da crescere, i sacrifici della moglie – madre – amica – confidente – chioccia – lavoratrice sotto pagata. Quadrare i conti di fine mese, affidarsi a qualcuno per ricevere aiuto mettendo sotto i piedi la dignità del suo essere lavoratore instancabile e poi, guardare in faccia quei figli ai quali speri di lasciar qualcosa, garantire un futuro, educarli alla dignità del sacrificio e della ricompensa.
Più di quarant’anni volati via come quel pugno di polvere rossastra che il vento ora gli soffiava via dalla mano e, assieme, la sua voglia di resistere per tirare a campare. Quante volte all’ombra di quell’albero di noce, piantato da suo padre – u Cola – nella campagna di Pulisano, Ninì aveva ritrovato la calma e la forza per rialzare lo sguardo con la speranza che le cose si sarebbero raddrizzate: “chiusa na’ porta se apre nu’ purtune”, aveva sempre ripetuto. Questa volta, però, quella tenacia non c’era e lui sapeva che era andata via assieme alla sua serenità. Con una sigaretta accesa e con lo sguardo fisso verso la nicchiarica de lu Moru, dove ogni tanto con Antonuccio aveva raccolto i cardunceddhi, Ninì osservava le splendide cutare bianche baciate dal sole e lì, nel fondo Tamburrinu, quella vecchia pajara diroccata e stretta nell’abbraccio di enormi scracie che ogni volta sembrava dire: “non farti morire come me …”.
E lui non volle morire …
Salutò tutti gli amici tranne quelli che veramente amava perché troppo doloroso sentirsi dire “ciao”, prese la sua famiglia e caricò l’auto di scatole e valige ma prima di partire tornò da quel vecchio albero di noce, respirò a pieni polmoni e gli sussurrò: “Tornerò … sì, tornerò!”.
Andò via quand’era ancora buio per sfruttare le ore più fresche dell’estate salentina che avanzava, diceva, ma in verità il buio lo preferì per non vedere il paese che si allontanava e poter così piangere di nascosto e tanto amaramente come solo un emigrante sa fare.