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“Cielo di sabbia” di Joe R. Lansdale

Creato il 09 settembre 2011 da Sulromanzo

Cielo di sabbia Joe R. LansdaleChi mi ha letta – in famiglia siamo in tre e sto ancora cercando il franco tiratore – di certo si aspetterà una recensione terribile, una serie di critiche feroci da far venire gli occhi lustri al vecchio Joe. Invece no, non stavolta. Da un comodino zeppo di libri, tutti lì ad attendere le mie stroncature, stavolta ho scelto qualcosa che sapevo mi avrebbe accontentata. Fa piacere sembrare buona, ma non fateci l’abitudine. È una condizione che non durerà.

Immaginatemi, complice la notte, allungare il braccio verso due pile di libri in precario equilibrio. Cielo di sabbia (Einaudi, 2011) mi si appiccica al palmo quasi sentisse arrivato il suo momento, forse perché io e Lansdale ce la intendiamo da tempo. L’ho conosciuto grazie al ciclo di Hap & Leonard – detective brutti e cattivi, detective per caso e per forza, un panorama di nani rabbiosi e prostitute buone come caramelle –, là i dialoghi sono frizzanti e scurrili, insomma sono il mio genere, io parlo così... ma non ditelo a mia madre.
Qui, invece, Lansdale dà prova di grande sensibilità: i protagonisti del libro, tre piccoletti che ci prestano gli occhi, parlano per l’età che hanno e, per quanto la storia sia narrata da Lansdale, che proprio un ragazzetto non è, il racconto non sembra artificioso. Merito di Lansdale, appunto. Un altro al posto suo sarebbe caduto nell’errore di raccontare una favola e il lupo ci avrebbe strappato un sorriso di scherno.

C’è anche il lupo? Ovviamente sì, più di uno, perché i tre ragazzini scappano dall’inferno di sabbia dell’Oklahoma per procurarsene uno nuovo: fuggono dal poco che rimane per correre incontro al niente. Scelta non facile! Per fortuna Jane – carina, furba e bugiarda – diventa mente e spirito – e spirito d’avventura – del terzetto. Sprona i compagni, li fa incappare in casini d’ogni genere e, in fondo, gli salva la vita

Torniamo un momento all’ambientazione, ché a Landsale i cataclismi piacciono un sacco.
Le tempeste di sabbia imperversano sull’Oklahoma e sommergono i campi coltivati e le speranze di chi ancora stringe i denti per non andarsene. Tenete presente che nei libri di Lansdale le condizioni climatiche avverse fanno sempre da spartiacque: c’è un prima e un dopo, e chi si salva tira fuori il meglio – o il peggio – di sé.
Se i grandi si abbandonano allo sconforto – rinunciano, si lasciando andare e soccombono –, i tre ragazzi preferiscono lottare contro tutto e tutti, rubando l’auto del vicino di casa – quell’antipatico che si è lasciato morire sul portico, inghiottito, insieme alla sedia a dondolo, dalla sabbia – per partire verso il Texas, o magari verso la California. Non importa dove, basta lasciarsi alle spalle la polvere che entra nelle case, s’insinua nei polmoni, asciuga i pozzi e fa crepare di sete. Via da lì, con pochi spiccioli e facendo grattare il cambio di quella macchina potente che la sabbia ha risparmiato.

Potrebbe sembrare il solito romanzetto on the road, con i buoni che scappano e i cattivi che inseguono. Qualcuno direbbe che l’idea già l’aveva avuta King quando scrisse The body (novella contenuta in Stagioni diverse, Sperling & Kupfer, 1987) – il film l’abbiamo visto tutti, è Stand by me – e in effetti anche qui la resurrezione arriva con una prova di coraggio. Solitamente non apprezzo né gli on the road né i romanzi di formazione – Cielo di sabbia è entrambe le cose –, che hanno il brutto vizio d’indossare l’abito della festa per nascondere un’autobiografia. Ma King e Lansdale, in questi meccanismi narrativi, ci sguazzano e Cielo di sabbia non cade mai nelle battute patetiche – è dura far ridere il lettore senza sembrare, ahimè, ridicoli – o nell’errore di raccontare i drammi di un’epoca con la mano pesante della saggistica.

I tre ragazzi di Cielo di sabbia smettono presto di scappare, decidono di darsi una meta e un compito ben preciso: salvare la vita di quel tale, quel rapinatore di banche che i “colleghi” inseguono per strappargli il bottino. Così, dopo aver dovuto cedere ai brutti ceffi – armati e senza scrupoli – l’auto su cui viaggiano, dopo essere stati legati come salami e aver riconquistato faticosamente la libertà, memori dei propositi di vendetta dei due rapinatori, partono alla ricerca del terzo. Lui, il traditore della banda, un padre che si è messo pericolosamente in gioco per il bene della figlia. Lui sembra essere un buon diavolo, il cavaliere errante da difendere. È un ladro, è vero, ma ha svaligiato una banca per una nobile causa. Da qualche parte si annida un cuore generoso, uno capace di mettersi con brutti ceffi per salvare la propria figlioletta. Così sembra, così deve essere, perché non possono esistere soltanto i lupi cattivi, e i ragazzi lo sanno, o almeno se lo augurano. 

Ecco perché loro, tirati su a cinghiate da genitori che non hanno saputo opporsi a un fato avverso, devono salvare la vita a quel tale. Devono farlo, perché avere un piano li terrà lontani dal baratro della resa. Ce la faranno, nonostante il mondo non sia diviso in bianco o nero e quel “ladro buono” non assomigli poi molto al Robin Hood che i ragazzini immaginano, eppure in quel grigio – e in quel grigiore – c’è ancora spazio per diventare adulti.

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