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“Cielo Nero”, di Giacomo Sartori

Creato il 16 marzo 2011 da Fabry2010

Recensione di Alberto Pezzini

“Cielo Nero”, di Giacomo Sartori

Ci sono storie scomode che fa comodo pensare non siano mai esistite. Qualcuno ricorderà ancora oggi Claretta, un film di Pasquale Squitieri sugli ultimi giorni di Benito Mussolini. Una pellicola ambientata tra Salò e Gardone, con Claudia Cardinale, sotto un cielo gonfio d’acqua. Ultimi giorni di vita di un uomo che aveva conosciuto sole e distese di uomini acclamanti. Quel film passò inosservato nonostante una sua bellezza interiore, e venne criticato come una pellicola grottesca. Che non accada a Cielo nero (ed. Gaffi, pagg. 214, euro 16,00), scritto da Giacomo Sartori, il quale ha deciso di raccontare invece gli ultimi giorni di vita di Galeazzo Ciano, l’ombra di Mussolini come lo ha immortalato Roy Moseley in una biografia intensa come un ritratto da vicino.
Giacomo Sartori, che divide la propria vita tra Parigi e Trento, autore di Nazione Indiana, ha registrato un Ciano dimenticato, quello della dignità. Non ha usato il trucco. Lo ha spellato vivo in tutte le sue debolezze di morte: i marroni divorati come se fossero l’ultima cosa bella della vita, il tailleur azzurro acqua della sua amante carceriera Frau Betz, i capelli sempre spalmati con dosi generose di brillantina. Lo hanno definito un Fitzgerald senza gin, un uomo diseguale come lo chiamò Bottai, dotato di una memoria prodigiosa per i particolari e di una smemoratezza desolante per le idee, i principi. Di certo Ciano – dall’oscuro ruolo di addetto all’ambasciata del Vaticano prima del 1930 – diventerà con un matrimonio uno degli uomini più influenti del ventennio. Ministro degli Esteri a trent’anni, sarà il primo ad intuire che gli americani avrebbero fatto la differenza. Resterà anche il primo ad aver percepito l’alito crudele dei tedeschi.
Sartori ha spulciato nelle fonti bibliografiche dedicate al genero del Duce ed ha scritto un libro di morte, dove Ciano è già un fantasma di se stesso, con la differenza di avere usato della dignità come se tutto il miele della speranza fosse già finito. Fu la sua anima mondana a perderlo, la bella vita che il fascismo puro non gli perdonò mai.
Figlio di Costanzo Ciano, eroe della Prima Guerra Mondiale, sovrani assoluti di Livorno tanto da possedere anche il Telegrafo – diretto da Giovanni Ansaldo -, Galeazzo divenne marito di una Mussolini con l’utero, come Bottai definì Edda, una delle vere dominatrici della sua vita. Il Duce, quando i due si sposarono, li accompagnò per circa un centinaio di chilometri a bordo della propria automobile: dovette scendere Edda e dire al padre di allontanarsi. Lo stesso padre che il 9 agosto del 1938 dirà: ”Tanto mia moglie che l’Edda sono una delusione… Finirà per compromettere anche l’avvenire del marito, perché quando io sento odore di scandalo passo su tutti, non vedo né parenti né amici: taglio e via. Tanto potrei fucilare chiunque in Italia, ché nessuno oserebbe parlare”. Parole di un uomo che disegnavano già una maledetta profezia divina. Tra le tante colpe di Mussolini, una certa storiografia non gli ha perdonato di aver fatto fucilare il genero. Di non averlo impedito. Il discorso sulla grazia è sempre stato un tema acceso. In realtà molti hanno puntato il dito su Pavolini, il quale non volle sottoporre al Duce una questione così lacerante sotto l’aspetto familiare; altri hanno scritto che Mussolini non poteva o comunque non avrebbe voluto farlo. Di certo è che Mussolini – nel 1943 – era ormai un capo dimezzato. La reputazione internazionale della Repubblica di Salò può essere ricordata da una nota spagnola in risposta ad una richiesta tedesca: “Non si può riconoscere un fantasma”. Edda cercò di salvare il marito barattando i suoi diari scritti su quaderni della Croce Rossa, dove Ciano descriveva il suocero come un cameriere nelle mani dei tedeschi che lo svegliavano nel cuore della notte soltanto per comunicargli le invasioni in Europa. Un servitore e basta, insomma. Giacomo Sartori traccia un ritratto intimo di Ciano, visto nella nudità terribile di un uomo nel carcere degli Scalzi di Verona. Ci era entrato indossando un soprabito chiaro, pensando di essersi liberato dei tedeschi. Ci morirà, la mattina dell’11 gennaio 1943, intabarrato dentro un cappotto di Caraceni. Lo fucilarono alla schiena. Cercherà di voltarsi poco prima dei colpi di fucile, l’ultimo atto di una vita dove aveva compreso essergli rimasta soltanto la dignità di morire come si doveva: per sé, ma soprattutto per i suoi figli.
Forse Sartori è uno dei pochi che ha giocato in termini narrativi cercando di far emergere da questo personaggio infantile e drammatico ciò che Indro Montanelli – in una Stanza memorabile del 22 settembre 2000 – aveva colto in un lampo di magnesio narrativo.
Ciano aveva contato di trovare rifugio dentro il cuore di Mussolini anche dopo averlo tradito, se di tradimento si può parlare. Aveva pensato al familismo degli italiani, a quel sentimento del contrario per cui ci si può anche tradire in famiglia, ma senza uccidersi. Questo fu l’errore di Ciano, l’aver contato sul lato terragno, romagnolo del suocero. Ma Mussolini era già un fantasma di proprietà tedesca a capo di un rimasuglio di fascisti i quali fucilavano i traditori. Fu solo ritorsione? Fu un maledetto ricatto? Mussolini confesserà che lì, quella mattina, con Galeazzo era morto anche lui.
Sartori ha scritto un libro scomodo, visto anche dall’ottica tedesca, che però restituisce un poco di luce a Ciano, anche sotto un cielo nero come quello dove la speranza è totalmente morta.



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