Recentemente mi è capitato di rivedere 2001: Odissea nello spazio. Appena finito, mi sono accorto di averlo visto con occhi diversi. D’altronde, quel capolavoro di Kubrick è un film che si presta a essere reinterpretato ogni volta, a ogni nuova visione, a ogni riflessione sull’intera sceneggiatura o sulle singole scene. Si è già scritto e teorizzato di tutto sul film, a partire da uno dei suoi elementi più intriganti, ovvero il monolito nero. L'interpretazione più accreditata lo vede come manifestazione di un’entità superiore in grado di spiegare il salto evolutivo compiuto dall'animale all'uomo. Dal canto mio, mi sono invece lasciato affascinare dai rimandi filosofici del film, divertendomi a cercarli al suo interno. La pellicola di Kubrick può essere enucleata, come sostengono anche molti critici, in un’ottica relativistica, ma c’è molto di più: la corsa sfrenata verso la tecnologia d'avanguardia (il film uscì nel 1968, un anno prima che l'uomo mettesse piede sulla luna per la prima volta) che sfocia in una pericolosa autonomia delle macchine, il rapporto tra l’uomo e l’universo, la teoria dell’evoluzione di Darwin e soprattutto il riferimento al Superuomo di Nietzsche (l’astronauta che si rigenera in un nuovo bambino, essere superiore, non è forse un parallelismo col Superuomo nietzschiano?). Ripensando poi agli altri film di Kubrick, non ci ho messo molto per trovare riferimenti filosofici anche in quelli: in Full Metal Jacket l’uomo è una specie di macchina addestrata alla guerra, senza possibilità di razionalizzare; in Arancia Meccanica il protagonista Alex è invece il tentativo opposto di uscire dall’omologazione della società (vedi anche qui il pensiero di Nietzsche sulla filosofia degli istinti), che cerca di limitare gli individui, propensi a essere impulsivi, attraverso il moralismo di massa, il bigottismo religioso e la demagogia dei politici. Certo, Alex eccede in tutto quello che fa, è vero; ma perché la sua natura è violenta e sovversiva. Mentre il protagonista di Eyes Wide Shut è al contrario un “uomo per bene”, medico con famiglia, che però è spinto dalle proprie pulsioni verso il proibito, e quindi a cedere all’irrazionalità, almeno per un breve periodo della sua vita.
Proseguendo in questa rassegna, si può tranquillamente affermare che, oltre a Kubrick, anche altri registi hanno dato vita a un cinema più impegnato, un cinema che ha saputo prendere a piene mani da teorie filosofiche e fare in modo che esse giungessero allo spettatore in quanto tali. Tra questi autori cinematografici, Terrence Malick, laureato in filosofia col massimo dei voti, è tra coloro che più ci ha abituati (anche se si può ritenere uno tra i registi meno prolifici della storia del cinema, per numero di pellicole dirette) a farci riflettere con i suoi film pregni di simbologie e messaggi. In primis la natura, e quindi una certa filosofia naturale, che è costantemente presente nelle sue pellicole, a partire da La rabbia giovane (il titolo in lingua originale, Badlands, rende molto più l’idea, in questo senso) fino ad arrivare al recentissimo The tree of life. La sua è una natura protagonista della scena, quasi avesse una vita propria, comunque dotata di un’anima (in questi termini, si potrebbe considerare la natura di Malick come la intende Platone). Il film più carico di significati di
Terrence Malick resta senz’altro La sottile linea rossa, straordinario esempio di cinema filosofico. Il monologo interiore del protagonista produce moti d’angoscia e domande esistenziali, e la consapevolezza della morte stimola la ricerca di un senso dell’agire umano. Vita e morte, natura e guerra, ma anche temi che rimandano a Heidegger (la trascendenza dell’essere, per esempio). Heidegger, in questo caso, non è la chiave del film, ma solo uno dei tanti elementi per comprenderlo meglio.David Lynch, il visionario del cinema per eccellenza, è solito trattare temi di natura filosofica: il sogno che non è mai solo sogno (basti pensare a Mulholland drive e Inland empire), il manicheismo (Twin Peaks, Velluto blu), il concetto di diversità (Eraserhead, The elephant man) e quelli di identità e memoria (Strade perdute).
David Cronenberg fa riflettere, fra le altre cose, sulla tecnologia come mezzo per alterare la realtà (eXistenZ), sul controllo esercitato dai media attraverso il loro imponente intervento (Videodrome), e ancora sull'identità, confusa in certi casi (Inseparabili), celata fino a essere rinnegata in altri (A history of violence).
Un altro tema caro ai filosofi è quello della verità. John Carpenter, per esempio, mescola verità e finzione, fino a chiamare in causa la pazzia umana (Il seme della follia), mentre i fratelli Coen, capaci di deliziarci con ogni genere cinematografico, nel loro film L'uomo che non c'era mostrano il valore relativo delle certezze. Verità apparente anche quella di The Truman Show, di Peter Weir. Qui il mito della caverna di Platone serve da spunto per un film che oscilla tra commedia e dramma. In Essere John Malkovich (Spike Jonze il regista), invece, la verità è assurda, surreale, ma al tempo stesso soggetta a interpretazioni più razionali.
Riguardo al rapporto tra corpo e mente, non si può che menzionare Blade Runner e Matrix, due capisaldi del cinema di fantascienza, anche se pare a dir poco riduttivo confinarli solo a quel genere, considerando i dubbi esistenziali che riescono a sollevare (Quale realtà? Qual è il nostro scopo? Sono completamente veri i nostri ricordi?).
L'esempio forse più datato di cinema filosofico è Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman. Nel capolavoro del grande regista svedese, spicca l'angoscia dell'uomo di fronte all'ineluttabilità della morte, e quindi non si può che far riferimento a Kierkegaard.
Ma prendiamo in esame anche alcune pellicole nelle quali si citano espressamente pensieri e teorie filosofiche. The addiction, dell'eccentrico Abel Ferrara, per esempio: storia di vampiri a New York, girata in un suggestivo bianco e nero. Probabilmente non un film filosofico, ma un film sulla filosofia (la protagonista è infatti una studentessa di questa materia), nel quale vengono citati Heidegger, Kierkegaard, Sartre e Nietzsche. In Into the wild si cita invece Henry David Thoreau, filosofo e scrittore americano del diciannovesimo secolo. E come dimenticare il “Carpe diem” oraziano citato nel celeberrimo L'attimo fuggente.
Per concludere, il cinema italiano. Salta subito alla mente Pier Paolo Pasolini. Il suo Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultimo film diretto prima di essere assassinato, si può considerare anche da una prospettiva filosofica, analizzando le dinamiche del male legittimato dal potere. Nell'episodio La ricotta, del film collettivo Ro.Go.Pa.G., infine, si cita “Il Capitale” di Karl Marx.