Posted 25 marzo 2013 in Cipro, Slider with 0 Comments
di Kaspar Hauser
Prosegue la farsa cipriota, quella per la quale un milione di abitanti dovrebbe costituire una minaccia per l’eurozona. Quella per la quale un prestito da 16 miliardi di euro (quando ne sono stati dati 4000 alle banche dal 2009) è un obolo troppo oneroso per i Paesi europei. Quella per la quale si dice che l’obiettivo erano i capitali russi, ma si lanciano segnali che d’ora in poi i Paesi in crisi dovranno pagare di tasca propria.
L’Eurogruppo ha approvato un nuovo piano concordato fra il presidente cipriota Anastasiades e la troika per salvare l’economia dell’isola. L’accordo prevede una profonda ristrutturazione del settore finanziario di un Paese dove questo è pari a otto volte il prodotto interno lordo. La Laiki Bank sarà chiusa attraverso un processo controllato, i depositi sotto i 100 mila euro saranno tutelati dalla garanzia europea mentre quelli sopra i 100 mila euro saranno congelati e probabilmente convertiti in titoli dello stato.
Anche la Bank of Cyprus, l’altra grande banca del Paese, subirà perdite, ma queste saranno decise in un secondo momento dalla troika e dalle autorità cipriote. Secondo Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, il nuovo piano non necessiterà del benestare del parlamento cipriota e potrebbe quindi diventare rapidamente operativo. I mercati esultano, i ciprioti meno. Questo accordo lascerà un segno in Europa, quel segno è la sfiducia, il timore, la rabbia nei confronti di una Unione Europea percepita come oppressiva e matrigna. L’euroscetticismo trova terreno fertile anche se, a ben vedere, non è tutta colpa di Bruxelles.
Come riportato anche da Ispi, ciò che contribuisce al successo dell’euroscetticismo è una leadership politica opaca e intermittente da parte della Germania, capace di farsi sentire quando chiede necessarie misure di austerity, ma incapace di tracciare percorsi di uscita dalla crisi oltre che una chiara visione strategica sul futuro dell’Unione. Infine – e il caso cipriota lo dimostra – l’articolata ingegneria europea impedisce al cittadino di vederci chiaro. Chi è il nemico? a questa domanda si risponde sempre più genericamente “l’Europa”.
No, non è l’Europa. Non del tutto, almeno. Come scrive bene Alessio Pisanò su Il Fatto quotidiano, l‘Unione Europea ha due anime: una comunitaria e l’altra intergovernativa. Alcune istituzioni europee, come il Parlamento o la Commissione, sono espressione di una “Europa che fa gli interessi dell’Europa”. Ma le numerose istituzioni intergovernative – come il Consiglio, l’Ecofin o l’Eurogruppo – impediscono alla prima di perseguire il suo fine “comunitario”. Queste ultime sono infatti rappresentanza degli interessi nazionali di ciascun Paese membro. All’Eurogruppo, quindi, Berlino parla a nome di Berlino e dei suoi interessi. Così fanno Parigi, Roma, Madrid… E gli interessi non coincidono facilmente, specie in un contesto di crisi. In queste istituzioni intergovernative la voce più ascoltata è quella dei Paesi più forti, i quali – tra l’altro – contribuiscono maggiormente ai fondi comunitari. Quindi chi mette moneta, decide. La gran parte della moneta la mette la Germania che quindi ha l’ultima parola. Nascono così “accordi” come quello cipriota, dove la Germania decide di non voler pagare per salvare Cipro e gli altri si adeguano: chi volentieri e chi no.
L’Unione Europea ha certo dei limiti e delle colpe, ma molte responsabilità stanno in capo agli Stati. Solo una Europa più comunitaria e meno frammentata, che esprima gli interessi collettivi e non quelli nazionali, può trascinarci fuori dalle secche di una crisi che, a ben vedere, il nazionalismo economico tedesco sta di fatto aggravando. Cipro è dunque un ulteriore capitolo della sfida intestina all’Europa: da una parte la Germania e i “rigoristi” (Olanda, Paesi scandinavi, Austria e gli inglesi che giocano di sponda); dall’altra i “periferici” (non solo l’Europa mediterranea ma anche buona parte di quella dell’est). Sembra che Berlino non abbia timore di una spaccatura, sembra persino che accarezzi l’idea di una doppia Europa, magari con un doppio euro, e tanti saluti all’Unione.
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Foto Reuters (by New Telegraph)
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