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Città raccontate: Roma n. 8 – La piena del Tevere (su Cartaresistente)

Da Icalamari @frperinelli

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Tevere

L’acqua spalla li ponti. È il detto romanesco che definisce una situazione fattasi improvvisamente esplosiva, che porta gli eventi alla catastrofe, come un’ondata del fiume in piena travolge e distrugge i ponti.

- Mannaggia alla paletta, quello t’ha guardato, sta’ a vede’ mo’ che je succede!
- Piano, piano, che me mannate all’aria tutta la taverna!
- Fermi per carità… Gendarmi!
- A bella, lasciali sta’ li gendarmi. Si esco vivo da ‘sta scazzottata, te porto a sentì er profumo der ponentino ‘ndove che ce lo so soltanto io…
- Vigliacco!
- Stà zitto te, e valla a pija’ ner chicchero!

Il romano è come Rugantino, spesso micione ma pure litigioso, specie il trasteverino. Ma, per vicinanza geografica, questo carattere si estende agli abitanti di tutti i quartieri sorti sul biondo Tevere.
Il fiume dà e il fiume toglie, è evidente fin dalla sua fondazione, per chi abita a Roma. Fu il fiume ad appoggiare sulle sue sponde la leggendaria cesta con i gemelli che disputarono il duello mortale per decidere chi dei due avrebbe dato nome alla città e da allora non ha mai smesso di segnarne il destino.
Nel VII secolo, le cloache sotterranee costruite per la raccolta delle acque di bonifica delle zone palustri e acquitrinose formatesi nelle vallate tra i colli, avevano il difetto di sfociare direttamente nel Tevere, provocando frequenti rigurgiti e inondazioni a ogni sua piena.
Allora, in epoca repubblicana e imperiale, i romani perfezionarono il sistema in idraulico-igienico, integrandolo con quello degli acquedotti, e modificarono il bacino idrografico (spesso “agevolati” dalla natura) realizzando ad esempio, nel II sec., il canale di Fiumicino (su cui oggi sorge l’omonimo Comune, istituito nel 1992) o l’allargamento del letto del fiume, ad opera di Augusto. I detriti risultanti dai frequenti e spesso spaventosi incendi della Roma imperiale e barbarica consentirono l’elevazione delle zone a quota più bassa.
Ma l’equazione nubifragio = inondazione = pestilenza tornò ad accompagnare Roma per tutto il secondo millennio.
La balaustra di Ponte S. Angelo fu abbattuta dall’ondata di piena sia nell’ottobre 1530 che nel dicembre 1598, quando il livello idrometrico raggiunse i venti metri. In quell’occasione l’acqua inondò Piazza Navona fino a un’altezza di cinque metri e sommerse le colonne del Pantheon per sei.
La causa di queste inondazioni era essenzialmente umana, essendo venuta a mancare la figura del “curator alvei Tiberis et riparum”, istituita da Augusto, e venendo gravemente trascurata la gestione e manutenzione dell’alveo fluviale. Solo con papa Gregorio XIII Boncompagni venne intrapreso un utile processo di regolamentazione edilizia e urbanistica, dirigendo l’espansione della città ad est, verso i colli.
Dopo l’ultima grande inondazione del 29 dicembre 1870 si realizzarono, negli anni 1880 – 1890, i “muraglioni” attualmente a difesa degli argini e fu risolto il problema dei rigurgiti fognari con due grandi collettori paralleli al corso del fiume, con il compito di scaricarvi le acque reflue lontano dalla città, all’altezza dell’odierno Grande Raccordo Anulare.
Durante lo scorso secolo, Roma si è trasformata profondamente e hanno avuto corso numerosi mutamenti idrogeologici, più spesso ad opera dell’uomo. Ed è noto agli addetti ai lavori che sono tuttora probabili eventi di portata simili a quelli avvenuti negli anni 1870, 1900, 1915 e 1937,che arrecherebbero danni all’Isola Tiberina su cui sorge lo storico ospedale Fatebenefratelli, mentre parte della città verrebbe invasa dalle acque per il superamento della barriera di Ponte Milvio.
In un’eventualità del genere non verrebbero risparmiate nemmeno le stesse zone di Roma pesantemente danneggiata dalle piogge del gennaio scorso, come la periferia Sud e Fiumicino, sulle cui strade gli abitanti hanno ormai imparato a spostarsi a colpi di pagaia.
Esistono metodi sofisticatissimi in grado di prevedere, in base alle precipitazioni attese, l’eventualità di una piena del Tevere e il suo grado di pericolosità. Quello che manca è la prevenzione, la messa in sicurezza della città, senza la quale nessuna previsione potrà risultare vantaggiosa. Forse il ripristino del curator alvei Tiberis et riparum avrebbe qualche senso, in attesa di una gestione seria dell’enorme capitale d’Italia e dei problemi che la colpiscono in proporzione alla sua estensione.
Chissà cosa ne pensa il fiume millennario.

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Le informazioni e i dati qui citati sono ripresi da:
Pio Bersani – Mauro Bencivenga (2001): “Le piene del Tevere a Roma dal V secolo a.C. all’anno 2000” – Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per i Servizi Tecnici Nazionali- Servizio Idrografico e Mareografico Nazionale.

Testi di Francesca Perinelli
Fotografia di Luigi Scuderi


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