A volte può valere la pena ascoltare un intero disco per arrivare alla summa soltanto nel finale. Non è questo il caso, ma ci si avvicina. Mi riferisco a questo Blues Ain’t Nothin’ di Clarence “Gatemouth” Brown, che data 1972 anche se poi i siti specializzati, e la Black And Blue records dovrebbero spiegare meglio come mai le registrazione va dal 1971 (e va bene) al ’73 inoltrato (e qui qualcosa non quadra): forse un remaster con bonus uscito postumo? Si parla del 1999, boh.
Comunque dicevo, la fine. Già, perché le prime nove, dieci tracce sono un normalissimo corollairo a quanto Brown già ci aveva abituati nel tempo, fin dal suo esordio (vado a memoria: 1947 circa). Sebbene lo stile sia inconfondibile e mai rinnegherei quanto detto in passato sul suo conto, anche di dischi meno brillanti di questo: genio e tradizione si confondono. Ma se si trapassa il consueto (piccoli scampoli di schizofrenia, schegge nervose di blues a servizio dell’orecchio meno pigro), la cosa si fa ancor più interessante, e si drizzano le antenne dal sonnolento ascolto, proprio quando si arriva a quei brani finali che poi sono antecedenti a tutto il rimpasto del disco ufficiale.
Si tratta in sequenza di New Okie Dokie Stomp, Piney Brown Blues, Hot Club Drive e The People, dove Gatemouth lascia la chitarra a Jimmy Dawkins e Mickey Baker e inizia a divertirsi con il violino. Sembra un dilettante. All’inizio. Poi ti tira giù dei virtuosismi in velocità che quasi viene da pensare che sia nato violinista ancor prima di impugnare la Firebird e marchiare a fuoco il suo stile, che non abbandonerà mai negli anni.