TITOLO: CLASS ENEMY
GENERE: DRAMMATICO
RATING: * * * +
TRAMA:
In un liceo sloveno, la professoressa di tedesco deve assentarsi per maternità. A lei subentra un nuovo insegnante, il prof. Robert Zupan. I suoi metodi, freddi ed esigenti, lo mettono subito in conflitto con la classe, abituata ad uno stile molto più amichevole e materno. Il suicidio della loro compagna di scuola Sabina, sarà poi il detonatore di una vera e propria ribellione che coinvolgerà profondamente tutti i personaggi di quella comunità, mettendo in evidenza dinamiche umane e sociali molto complesse.
(Regia: Rok Bicek – anno 2014)
COMMENTO:
Quel credere ciecamente di avere la verità in tasca e di essere nel giusto, quegli spigoli vivi che si scontrano con il mondo e con la morte, la rabbia di Luka, la ribellione, l’inadeguatezza e l’impotenza della psicologia con le sue lezioni sulle “quattro fasi del lutto” e la “piovra della tristezza”, la scoperta di un “sistema” marcio che non si accetta: un periodo fragile e di fuoco l’adolescenza, dove questi piccoli uomini e donne in embrione assomigliano più ad ammassi di creta informe in attesa di essere modellata; tutto in potenza ma ancora niente di definito. Se saranno delle cash-cow, dei neuro-schiavi o delle persone, dipenderà poi dalla famiglia (stupendo come Rok Bicek rende riconoscibili nei genitori riuniti in consiglio i tratti caratteriali fondamentali dei loro figli), dalla scuola, dalla società e dai singoli ragazzi.
Spesso li osservo con i miei occhi disillusi da adulto e mi fanno sorridere i loro segni di riconoscimento, i loro look griffati, gli ormoni che ottundono il cervello, una certa sicumera ed arroganza nell’approcciare, senza rendersi conto che si aggirano per la città come tanti uomini-sandwich con grandi cartelli invisibili sul dorso e sul petto con su scritto “lavori in corso”!
A fronteggiarli un manipolo di insegnanti delle superiori, con le loro conoscenze, strategie, limiti e difetti. C’è chi gioca a fare l’amicone, chi li prende con fare materno, il preside che cerca di rappresentare la giustizia e la mediazione super partes dell’istituzione.
Tra di essi spicca il prof. Robert Zupan, un uomo profondo, di grande lucidità e cultura che sceglie di amare i ragazzi nel modo più difficile ed ingrato, quello di insegnare loro a vivere in un sistema che, anche se freddo e crudele, dal punto funzionale è perfetto. Non fa l’amicone o la mamma, Zupan usa la provocazione e lo fa citando una frase di Thomas Mann: “La morte di un uomo è meno affar suo che di quegli che gli sopravvivono!”.
Uno stile di insegnamento asettico, logico, razionale, che lo porta a diventare il capro espiatorio di quei ragazzi che scagliano contro di lui tutta la frustrazione e rabbia per la morte della loro compagna Sabina, salvo poi ricevere proprio dall’odiato professore la più bella lezione della loro vita; un’analisi lucida e spietata di ciò che è accaduto che li porterà a riflettere: hanno creduto di possedere la verità, hanno individuato un responsabile, un colpevole contro il quale indirizzare la loro aggressività, sono stati ciechi ed ignoranti nell’aver usato l’etichetta di “nazista” senza conoscerne il significato. La frustrazione per non aver trovato la risposta alle loro domande ha poi finito per spaccare il fronte comune, ha portato alle defezioni degli amici, sino a culminare nello scontro fisico tra Luka e Tadej. La rivelazione di quegli eventi oscuri è nelle parole del prof. Zupan:“non avete trovato la risposta per il semplice fatto che una risposta non esiste! La verità non è così semplice come pensate, la realtà è molto più complessa e non è tutto bianco o nero”. E proprio per sottolineare questo messaggio, bellissima la scelta di Rok Bicek di non prendere le parti di nessuno, lasciando aperta e più realistica la riflessione sulle responsabilità di tutti, professori, insegnati, famiglie, ragazzi e persino Sabina che nella decisione di suicidarsi ha fatto una scelta.
Dal punto di vista squisitamente pedagogico anche il prof. Zupan ha commesso degli errori, quello più grave ed evidente è stato quello di usare l’umiliazione: in una fase così delicata della crescita si dovrebbe cercare di formare nei ragazzi delle basi stabili che diano loro sicurezza e fiducia in se stessi. Nel sottolineare eccessivamente l’asimmetria conoscitiva tra lui e loro, Zupan finisce invece per svilirli. I docenti dovrebbero invece essere così preparati ed abili da possedere l’arte di suscitare “curiosità”. Ma è facile giudicare dall’esterno un lavoro, quello dell’insegnante, così nobile e difficile, soprattutto nel segnare quel delicatissimo confine fatto di rispetto che deve sempre esistere tra maestro ed allievo, un confine oggi sempre più travolto dall’arroganza e dalla maleducazione. Ma del resto cosa si pretende quando una società sceglie di non investire risorse nell’istruzione relegando il ruolo di insegnante (salvo rare eccezioni) ad un ripiego per mediocri? La considerazione, e quindi le risorse, dovrebbe essere rovesciata se si vuole ottenere come obiettivo degli studenti preparati e pronti per essere inseriti nella società della conoscenza: solo i migliori, i più talentuosi, i premi nobel, dovrebbero ricoprire il ruolo di “insegnante”.
Un’ultima attestazione personale di stima nei confronti del prof. Zupan: i frutti di una scuola sempre più deresponsabilizante, che giustifica i ragazzi ad oltranza e li protegge dalla durezza della vita sono ormai sotto gli occhi di tutti, basta anche solo aprire le pagine di cronaca dei giornali senza andare a scomodare analisi socio-psicologiche. “Benvenuto nel ventunesimo secolo: prima loro temevano noi, ora noi temiamo loro“: In questa frase piena di rassegnazione, che la preside Zdenka pronuncia in merito al rapporto studenti-docenti, c’è tutta l’essenza della scuola di oggi.
Il vecchio professore segue il metodo di insegnamento vecchio stile, meno simpatico e negoziale ma molto più formativo. Diffidate di chi vi liscia e lusinga sempre. Chi ama veramente a volte deve essere duro e sincero verso l’altro. Deve saper dire “no” oppure “stai sbagliando”, certo nei dovuti modi, ma sempre senza diventare superficiali, incapaci di sentimenti sinceri o di affrontare i nodi delicati solo per paura di creare momenti di tensione con gli altri. A volte la tensione serve. È dalla chiarezza che nascono le cose forti. Dalla mediocrità, dall’ambiguità e dal compromesso non nasce nulla di grande.