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Claudio Damiani

Da Fabry2010

Claudio Damiani, Poesie, Marco Lodoli cur., Fazi Editore

Claudio Damiani

Il fico sulla fortezza
ha vita molto precaria
perché quando faranno i restauri
sarà certamente tagliato.
Però sta tranquillo sotto la luce del sole
distendendo il suo ampio mantello
disuguale, incurante dell’estetica,
se ne frega di stare così in alto
non soffre di vertigini
si lascia accarezzare
dalla luce e dalle brezze tiepide
sente la nebbia, sente gli uccelli
che parlottano tra i suoi rami.

*

Quel fico sulla fortezza
è solo, vorrei accarezzarlo
“Lo sai, verranno a prenderti”
“Lo so, verranno a prendermi”
“Sei solo” “Lo so, sono solo,
ma ho tanti figli, lo sai?”
e io in effetti non li avevo visti
e ora vedevo che sotto le sue fronde
c’erano tanti figlioletti.
“Moriremo tutti insieme, come soldati intrappolati,
non morirò prima io o prima loro
ma tutti insieme, capisci?
E questo mi rincuora”.
Intanto erano venuti degli uccelli
e becchettavano tra le pietre
“Loro mangiano i nostri fichi
porteranno i nostri semi lontano
nasceranno tanti nostri figli
in luoghi che non conosciamo.
C’è qualcosa che resta di noi
dobbiamo vedere questa grande famiglia,
vedere terre che non abbiamo visto,
dobbiamo gioire con loro”.

*

Fai un lavoro duro, cassiera di un discount,
ma sei allegra, scherzi con tutti,
velocissima conteggi i prezzi,
nella tua mente passano mille numeri,
e scherzi, poi prendi le cose
e le metti nelle buste, fai cose
che potresti anche non fare, è squallido
dove lavori, ma tu non te ne curi,
sei semplice, forse ignorante,
una ragazza di campagna
nemmeno bella, piccolina,
ma da te imparo non sai quanto.

*

Se gli uomini avessero sempre da fare
sarebbe meglio
perché avrebbero meno tempo
per soffrire,
se ci fosse molta socialità
feste e canti, riti
molta natura, non quelle discoteche oscene
non quelle città schifose,
molta religione, più musica,
più fanciulle che danzano battendo i piedi
o cantando su barche scendendo i fiumi,
molto camminare nei boschi, molto studio e amore,
non quella televisione da lupanare, con facce da assassini,
molta arte, molta cortesia e gentilezza,
buone maniere, educazione, studio,
meno intellettuali ignoranti,
e quei vip, con quelle facce da maiali
che si rotolano nella loro merda,
più umiltà, molta più umiltà, e rispetto,
se ci fosse più silenzio, più feste
più lavorare insieme, tranquilli,
contenti di lavorare insieme, cantando.

*

Vorrei semplicemente descrivere
quello che vedo, non altro
non mi interessa inventare
mi piace camminare
e mi piace guardare
voglio guardare questi alberi quieti
e pazienti, dalle belle fronde,
che vivono silenziosamente e respirano l’aria
accanto a me, mentre io sono qui
loro sono là, mentre io li guardo
loro mi sentono, e stanno attenti a me
come io sto attento a loro,
voglio sdraiarmi, e dormire
mentre loro stanno in piedi, e mi guardano
oppure pensano a cose loro
gli succedono cose che io non so
e vorrebbero dirmele, e me le dicono, anche
oppure anche loro dormono
senza sdraiarsi, stando in piedi, dormono
uno accanto all’altro, stando semplicemente accanto.

*

Dal mondo inorganico
a quello organico, alla vita
non c’è un vero salto
ma una linea continua,
anche se non proprio nitida.
Ma gli atomi, non sono forse vivi?
Non si riproducono, questo è vero,
ma si trasformano, liberando energia,
sono energia, condensata in materia
che si organizza perché ha un pensiero solo:
giungere alla vita per riportare l’ordine
o qualcosa che è stato perduto, riconquistarlo,
una missione che ci sfugge, eppure lo sentiamo,
sentiamo che andiamo, anche nelle continue cadute,
verso un bene lontano sempre più vicino.

*

Nelle altre stelle (nei miliardi di galassie
che ci circondano) c’è la stessa materia
che sulla terra, dunque la stessa vita,
specie diverse, ma in certi casi simili,
in certi casi probabilmente uguali,
adattate all’ambiente, caso per caso,
la vita sta cercando di fare qualcosa,
- che cosa?,  direte, io penso: un passo indietro,
un passo minimo, ma che richiede miliardi di anni
e uno sforzo immenso di intelligenza,
per ritornare a una pace, a uno stare insieme,
a una serenità che la materia ha perduto.

*

Se siamo così tanti
vuol dire che non c’è morte
perché non possiamo morire così in tanti,
se le galassie sono così tante
se tra viventi e non viventi non c’è poi tanta
differenza, e se dovunque è il vivente
come dovunque è l’idrogeno
e se la plastica che abbiamo inventato
in qualche mondo è in natura,
se ciò che facciamo non è artificiale
ma imitazione della natura,
natura stessa perché noi siamo natura,
parte di lei, messi da lei
a creare esseri artificiali
sotto il suo comando,
allora la morte ha poco da dire
e insieme tantissimo, è qualcosa che ci appartiene
e non ci è estranea
qualcosa che ci accomuna, e ci riunisce,
qualcosa di bello, che adesso ci fa paura
ma quando arriverà sarà un’esperienza grande
più grande della nascita, più grande dell’amore
e saremo contenti di poterla vivere insieme.

*

Lascia che l’aria mi riscaldi, lascia che il sole mi baci,
quei rondoni che mi sfioravano quasi
in lunghe virate repentine acute
non li togliere, lasciali, lascia le case
che stanno intorno, e questa sera che viene
non la fermare, guarda come scorre
naturale e dove mette i piedi,
mai non sbaglia, e come variano i colori
con una complessità incalcolabile
da nessuna macchina.
Sempre rimarremo stupiti da quei colori teneri,
sempre commossi e fraternamente vicini
da quel crescere del nero dentro la luce chiara
come l’avvicinarsi di un’ombra,
quasi fino a toccarci.

*

Dal mio piccolo punto di vista
vedo l’universo. Un rettangolino.
Il mio terrazzo. E’ la notte di maggio calda
e fresca, una brezza mite spira
che mi rinfresca della giornata afosa.
L’universo non credo sia diverso
dal nostro mondo: dopo tanto pensare,
tanto meditare sono convinto non solo
che quel che sta sulla terra sta un po’ dovunque nel cielo
ma anche che quello che sta nel cielo
sta un po’ qua e là sulla terra.
Allora dico: non ci immaginiamo cose tanto strane
ma guardiamo quello che ci sta vicino,
lasciamoci ferire dalla sua bellezza
e nella sua sapienza riposiamo il cuore.

***

Prefazione di Marco Lodoli

Era il 1977, ero appena tornato da Parigi dove avevo vissuto per un paio di mesi insieme a Edoardo Albinati, il primo amico della giovinezza. A Parigi mi ero inebriato di contemporaneità, io che avevo studiato in un istituto cattolico, che vivevo di inadeguatezze e timori, di colpo m’ero trovato in una dimensione nuova, tra Saint Germain des Près e il Bobourg, tra i Deux Magots e la mia pensioncina da artista. Mi sembrava di dover calcare le orme di tutte le avanguardie novecentesche, di dover vivere di scandali e genialità, anche se in fondo continuavo a sentirmi sempre a disagio ovunque. In quei mesi avevo letto molto i surrealisti, immaginavo un’altra vita, un altro mondo. Ebbene, tornato a Roma, non ricordo come e perché entrai in contatto con un gruppo di giovanissimi poeti e pittori, i quali cercavano altre persone per aprire una galleria d’arte e forse anche una rivista. Pino Salvatori, Felice Levini, Mariano Rossano erano gli artisti, Claudio Damiani, Gino Scartaghiande, Giuliano Goroni e poi Beppe Salvia i poeti. Avevano trovato un locale in via Sant’Agata de’ Goti al quartiere Monti, e lì ci vedevamo per discutere di tutto e di niente. Intorno la città ardeva senza tregua, scontri, ferimenti, uccisioni, le parole astratte della politica trasformavano concretamente la vita di migliaia di giovani, spesso la stravolgevano. In mezzo alle macerie del tempo, Damiani parlava di Petrarca, di Leopardi, di Saba con la sua voce lieve, con parole che io non capivo bene. Ricordo una discussione su come organizzare lo spazio che avevamo affittato: io, ancora scioccamente parigino, proponevo che nella galleria d’arte ci fosse qualcosa di simile a un bar, come avevo visto attorno al Bobourg, di modo che l’immaginazione si confondesse con la vita presente, e che tutto si sporcasse un poco in una confusione vivace. Damiani invece parlava di uno spazio concavo, bianco, puro che accogliendo il mondo intero gli desse una forma chiara. Non bisognava fare niente, solo imbiancare e aspettare che tutto lentamente si definisse, che l’imprecisione trovasse un motivo per quietarsi ed esprimersi. L’ebbrezza caotica di quegli anni, fatta anche di discorsi magniloquenti, a volte minacciosi e astrusi, doveva ritrovare una metrica e parole più semplici e vere, come insegnavano i latini e la poesia cinese. Non si doveva forzare le cose, solo accompagnarle. Io non capivo nulla, io volevo esagerare, spingere, inventare, Damiani invece voleva solo aderire ai limiti umani, poveri e sacri. Per me è stata una grande lezione. Quel ragazzo minuto sapeva cose che io non sapevo, stava già oltre i linguaggi distruttivi del Novecento, stava prima, stava nella poesia che nomina e salva, che raccoglie e consola.
Quella stagione ebbe il suo punto finale in un giorno di primavera del 1985, il giorno in cui Beppe Salvia si uccise. Avevamo partecipato tutti a Braci e a Prato Pagano, due riviste che oggi non si potrebbero neppure immaginare per quanto erano fragili e profonde, prive di ogni superbia ideologica, voce di un piccolo gruppo di ragazzi che s’allontanavano dalla furia cieca dei linguaggi astratti per ritrovare la dolorosa dolcezza della lingua. Questa era la missione di quei fogli, all’inizio quasi francescani nella loro modestia, poi un po’ più eleganti, ma sempre distanti dal clamore e dalla protervia avanguardistica. Ricordo che Claudio e Beppe tenevano moltissimo alla forma grafica delle riviste: a guardare oggi quei nudi fascicoletti di Braci, è impossibile immaginare quanta attenzione ci fosse alla composizione delle pagine, quanta severità. Claudio leggeva Pascoli e Orazio e Caproni, sdegnava ogni moda letteraria, cercando una lingua che potesse parlare di ogni cosa senza mai tradire il vero. Guardavo a Claudio e Beppe come a due fari potentissimi: più nero Salvia, più chiaro Damiani. E anch’io a poco a poco mi spogliavo di ogni ridicola artificiosità, finalmente convinto della fragilità assoluta della vita, della sua tragica bellezza. Fu una lunga stagione di ricerca, ognuno inseguiva la sua voce più autentica, anche se Claudio e Beppe restavano più avanti di tutti, così diversi eppure quasi fratelli nell’intransigenza verso ogni cedimento alla mediocrità ammantata di supponenza, verso il tempo nuovo che avanzava pesante e osceno come un carro armato coloratissimo. La mattina del funerale eravano tutti lì, sul piazzale del Verano, e credo che tutti provammo la stessa pena: Beppe era morto, ognuno si sentiva più solo e più inutile. Ci separammo definitivamente, la giovinezza era finita per sempre. Ma la poesia doveva continuare, caricandosi di maggiori responsabilità, lungo la strada ogni parola andava posata come un sasso, come un fiore. E il tema quasi taoistico della strada che esiste prima di ogni viandante e resterà dopo di lui, che conduce i passi di chi la rispetta e ne avverte l’intima energia, e con lei quasi si fonde, sarà costante in Claudio. Non ci sono scorciatoie, non ci possono essere deviazioni: bisogna solo andare, guardare, capire.
La poesia di Claudio Damiani ha un timbro e una sostanza immediatamente riconoscibili, perché afferra il cuore e perché viene da lontano – dal sempre, direi, se il sempre fosse una categoria letteraria. Certo, la classicità nutre questi versi come una madre fa con un figlio: non si tratta di colti recuperi di forme metriche e compositive, di un nobile omaggio alla tradizione, ma di un’adesione profonda allo spirito della poesia più vera, quella che non divaga e non si distrae in inutili acrobazie stilistiche, che non vuole scandalizzare o sorprendere grattando i nervi, ma che rimane costantemente fedele, persino nella sua metrica, al ritmo profondo dell’esistenza. Il ritmo dei versi è il respiro profondo e ciclico della vita, e le immagini di un uomo nella natura non pretendono di scavalcare un destino comune o peggio ancora di maledirlo in nome di una superiorità intellettuale: qui siamo esattamente dentro il percorso di un’emozione che sa quanto la vita sia breve e sacra, come quella di una foglia o di un gatto, come ogni vita che appare, partecipa e scompare. “Che bello che questo tempo/ è come tutti gli altri tempi,/ che io scrivo poesie/ come sempre sono state scritte” dice Damiani in una poesia che ha la potenza lieve della verità, “Che bello che questo tempo, come ogni altro tempo, finirà,/ che bello che non siamo eterni,/ che non siamo diversi/ da nessun altro che è vissuto e che è morto,/ che è entrato nella morte calmo/ come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto/ e poi, invece, era piano.” Il tema della morte resta centrale nell’opera di Damiani, sembra quasi che tutto il percorso di Claudio sia mosso dalla necessità di amare i giorni della vita proprio perché corti e destinati all’oblio, di amarli nonostante la consapevolezza della fine. Una grande compassione lega Damiani alle creature del mondo, non c’è bisogno di andare via dalla propria terra, di moltiplicare incontri ed esperienze per scoprire l’evidenza di una legge naturale, tanto crudele quanto ineludibile: anche la storia di un gatto, anche le foglie gialle portate dalla corrente di un fiume, anche una casa che lentamente si sfascia raccontano la nostra essenza temporale. Siamo fratelli perché siamo fatti degli stessi minuti che fuggono, di rovine, di fragili speranze pronte a subire la condanna delle stagioni: “E anche sentivo che non c’erano differenze/ neanche sui tempi, nel senso che uno moriva prima e uno dopo,/ ma tutti insieme andavamo incontro alla morte/ come tenendoci per mano, cantando,/ con i capelli profumati, col capo cinto di fiori”. Una sola dolce e spietata catena-ghirlanda lega tutti gli esseri presenti e passati, tanto che il passato diventa altrettanto intenso del presente, e Damiani lo cerca, lo interroga, lo accarezza come un tempo concluso ma proprio per questo capace di far sentire tutta la sua terrena perfezione. L’isola d’Elba, casa dei padri, diventa allora la patria, perché lì tutto appare concentrato, contenuto dall’azzurro del mare e del cielo, poeticamente chiaro nella lontananza. Ciò che nell’oggi sembra disperso, contraddittorio, amaro, ciò che la nostra vita non riesce ancora a riconoscere come luogo sacro del dimorare, nell’isola ritrova il senso di unità, proprio come un libro che si è chiuso e al quale nessuna pagina si può più aggiungere o togliere, e tutto è necessario perché tutto è stato: “Noi siano tutti uniti. Quando tu morirai/ ci troverai tutti qui, ognuno che hai conosciuto/ lo rivedrai uguale, e questa terra a te cara/ la ritroverai intera. Tanto più l’avrai amata,/ tanto più la ritroverai identica,/ tanto più l’avrai sentita come tua patria,/ tanto più sarai vicino ai padri.”. Amo i libri di Damiani come cose vive, tremanti, generose nella coscienza del limite: confesso di aver talvolta baciato queste pagine come amiche sincere che sul bordo di un addio ci dicono le cose più importanti, con il tono pacato di chi non ha più nulla da nascondere, nulla da abbellire con i fiocchi della letteratura. E’ una poesia grandissima perché va al cuore del problema, là dove la vita e la morte si guardano negli occhi e si riconoscono come parti del tutto. Damiani qualche volta sogna un’eternità che comprenda il prima e il poi, l’ora in cui ancora non eravamo e quella in cui forse ci ritroveremo senza più dolore: si intuisce che è un desiderio cristiano che si scontra con una più convinta visione classica, dove l’aldiquà e l’aldilà sono ipotesi poetiche che servono semplicemente a rafforzare l’accettazione dello scorrere perenne del presente. Solo l’amore del qui e ora, del suo infinito e fermo divenire, può salvarci, secondo Damiani. I figli sono come i padri, piccole foglie che devono verdeggiare e poi serenamente staccarsi dall’albero, affinché l’albero continui a vivere. “Ho la sensazione che tutto sia distrutto/ e tutto sia intero, perfetto”: ecco, in questi due versi si racchiude molta della poesia di Damiani, malinconia e consolazione, un dolore grande e la convinzione ancora più grande che, nonostante le apparenze, tutto abbia un senso, tutto sia collegato in un destino preciso, tutto vada verso la rivelazione di una qualche felicità, che sembra impossbile e invece forse è a portata di cuore. Queste poesie non solo ci convincono nella loro distesa purezza, ma per un poco almeno ci rendono migliori, come la grande poesia fa sempre, perché ci mettono in contatto con il centro della vita, vita che si disperde ovunque, che si ammala, soffre e scompare nella storia individuale e collettiva, ma che contiene un nocciolo fermo, fecondo come l’amore.

Bibliografia critica: Andrea Monda, Claudio Damiani, Poesie, Il Foglio, 18 settembre 2010 – Ida Bozzi, L’antico Damiani, poeta contro le avanguardie, Corriere della sera, 19 settembre 2010 – Stefano  Clerici, Quei versi colorati e felici che tengono saldo il cuore, La Repubblica, 20 settembre 2010 – Marco Lodoli, Il ritmo profondo dell’esistenza – L’importanza dei versi di Damiani, Il Riformista, 21 settembre 2010 – Davide Brullo, Qualche perla ai porci mondani, La Voce di Romagna, 21 settembre 2010 – Bianca Garavelli, Damiani canta il fluire dell’esistenza senza retorica, Avvenire, 25 settembre 2010
Camillo Langone, Preghiera, Il Foglio, 25 settembre 2010 – Alessandro Moscè, Lieti versi francescani che attraversano l’anima”, Corriere Adriatico, 25 settembre 2010 – Nicola Bultrini, Damiani e il miracolo quotidiano di vivere, Il Tempo, 26 settembre 2010 – Lauretta Colonnelli, Universo di poesie, Corriere della Sera, 26 settembre 2010 – Renato Minore, ei versi di Damiani tutti i bambini del mondo, Il Messaggero, 26 settembre 2010 – Davide Rondoni, Roma capitale poetica, il Sole 24 ore, 26 settembre 2010 – Sandra Petrignani,Che bello che non siamo eterni. Poesie di Claudio Damiani,L’Unità, 27 settembre 2010 – Filippo La Porta, Il paradiso ritrovato di Damiani, Il Riformista, 2 ottobre 2010
Rosa Salvia, Nota a Sognando Li Po, Poiein, 8 ottobre 2010 – Enzo Golino, I versi amici di Damiani insegnano la bellezza di non essere eterni, Il Venerdì di Repubblica, 8 ottobre 2010 – Angelo Lippo, Una poesia che non divaga e non si distrae in inutili acrobazie stilistiche, Literary, 9 ottobre 2010 – Paolo Pegoraro, Un poeta sulle orme di Teilhard De Chardin?, Zenit, 12 ottobre 2010



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COMMENTI (1)

Da smerildo
Inviato il 03 novembre a 14:00
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